E così ce l’hanno fatta. Ieri a Vieste anche Girolamo Perna è stato ucciso. Aveva 29 anni ed era il boss di una delle fazioni armate che oggi si contendono il predominio del Gargano. Era scampato per miracolo alla morte in due agguati falliti nel settembre 2016, in cui venne colpito a una gamba, e nel marzo 2017, in cui affrontò un conflitto a fuoco mentre era in compagnia della famiglia. Ieri un fucile da caccia, tipica arma usata per gli omicidi garganici, ha messo fine ai suoi giorni.
Perna non è che l’ultima vittima di una scia di sangue – di tipo “sudamericano”, come l’ha definita il vescovo di Manfredonia Franco Moscone – che sul Gargano va avanti da anni. Dal 2017, per citare solo gli ultimi omicidi della guerra fra clan, sono stati uccisi Mario Romito, Matteo De Palma, i fratelli Luigi e Aurelio Luciani (solo perché involontari testimoni del duplice omicidio Romito-De Palma), Antonio Fabbiano, Giambattista Notarangelo, Gianmarco Pecorelli e Omar Trotta, più un agguato fallito all’altro boss emergente, Marco Raduano.
Il Gargano è uno dei maggiori centri balneari italiani, più o meno il sesto in classifica, con oltre due milioni di turisti che d’estate lo prendono d’assalto. Dovrebbe essere perciò famoso solo per le zuppe di pesce, le coste da urlo e le cittadine suggestive con i negozietti. E invece i clan mafiosi – perché di questo, e solo di questo, si tratta – ne stanno distruggendo la reputazione, trasformandolo da simbolo di libertà estiva in una location da thriller cinematografico. Il sindaco di Vieste Giuseppe Nobiletti è giustamente sconfortato: sente la situazione sfuggirgli di mano ed è necessario correre ai ripari per evitare il crollo turistico della zona in favore di un Salento più difficile da raggiungere, ma dove la Sacra Corona Unita è di fatto sparita. Omar Trotta è stato ucciso alle tre del pomeriggio di luglio di due anni fa in un ristorante al centro di una Vieste strapiena di turisti, roba da Chicago degli anni 30. Quale turista presente in zona vi tornerebbe?
Fino al 2011 nel Gargano spadroneggiano i clan Li Bergolis di Monte Sant’Angelo e Romito di Manfredonia, che nel 2010 si affrontano in una sanguinosa guerra a colpi di Ak47. Il conflitto armato e i morti che ne conseguono però ne affievoliscono la forza, e le attività giudiziarie fanno il resto rendendoli quasi inoffensivi. Emerge un nuovo boss, Angelo Notarangelo di Vieste, il cui clan diventa egemone fino a quando, nel gennaio del 2105, Notarangelo non viene ucciso da quattro sicari armati di Ak47. Si apre così la successione al boss morto, ma i suoi sodali si scindono nelle fazioni, entrambe viestane, di Marco Raduano, vicina ai Romito di Manfredonia, e Girolamo Perna, vicina ai Li Bergolis di Monte Sant’Angelo. Quel Perna che è stato ucciso ieri. E la guerra continua.
Attenzione: i clan garganici sono una cosa diversa dai clan foggiani e cerignolani (anche se si stanno unendo perché l’unione fa la forza, si sa). In una situazione in cui una parte della Puglia è schiacciata, per non dire devastata, dalla malavita, il governo dovrebbe riservare al fenomeno un’attenzione ben diversa dall’attuale. Dispiace autocitarsi, ma da anni chi scrive non fa che stimolare in vari modi lo Stato centrale a considerare quella terra come un’altra Napoli o una seconda Palermo, progettando e attuando non solo un incremento sostanziale e sostanzioso delle forze dell’ordine, ma anche la creazione di una procura antimafia che sieda in pianta stabile a Foggia.
C’è voluta – non è bello citarsi ancora, ma purtroppo lo avevamo previsto nel 2014 in una commissione parlamentare – la morte degli innocenti fratelli Luciani, nell’agosto del 2017, per vedere arrivare qualche rinforzo a Polizia e Carabinieri del foggiano e la creazione di nuovi uffici come il Reparto prevenzione crimine e i Cacciatori di Puglia. Ma occorre fare molto di più. Anche il barbaro omicidio a Cagnano del povero maresciallo Vincenzo Di Gennaro è sintomatico: non è un omicidio di mafia ma, come dice il procuratore di Foggia Ludovico Vaccaro, è figlio di una mentalità illegale di disprezzo delle istituzioni.
Dopo l’ennesimo omicidio di ieri, avremmo voluto sentire una parola (e una promessa concreta) dai ministri Matteo Salvini e Luigi Di Maio o dal presidente Giuseppe Conte, anch’egli garganico. Ma non l’abbiamo sentita, almeno fino a ora. Evidentemente tutti i problemi del Paese e gli sforzi della politica si riducono al contrasto di un’immigrazione che ormai da due anni è scesa ai minimi storici, oltre che a dire alla gente che se vede un’ombra in casa gli può sparare impunemente come nel Far West (cosa peraltro non vera). O a organizzare spot penosi tipo trailer di film hollywoodiani per la cattura di latitanti in Sudamerica.
Nel Paese i problemi della sicurezza sono altri. Si chiamano mafie, corruzione, evasione fiscale. La mafia è dimenticata, e intanto i clan sottraggono 100 miliardi di euro all’anno alle casse dello Stato. I mafiosi non si vedono, non si sentono, la gente tace per paura: non servono perciò nelle cabine elettorali. Occorre mirare a una politica seria e progettuale e a vedute che vadano al di là di dei sondaggi o del vincere qualche campagna elettorale demonizzando sempre e comunque gli avversari. Perché la gente non ne può più di spot sparati a raffica dai geni della comunicazione partitica. E non dimentichiamo che negli ultimi anni Perna è entrato e uscito dalla galera in continuazione, un ulteriore segnale – come se ne servissero ancora – che il Parlamento, anziché perdere tempo in dibattiti su tematiche come quelle sul congresso di Verona sulla famiglia o in diatribe partitiche su sottosegretari da allontanare o meno dal governo (presidente Conte, per favore, si faccia sentire!), farebbe bene a studiare i motivi per cui boss e delinquenti conclamati non riescono, in molti casi, a stare in galera per più di un anno di fila.
Una volta capito il “perché” (c’è una serie di norme che lo consentono), poi si decida come modificare il codice penale e quello di procedura penale in modo da garantire pene certe e la permanenza in galera di chi è pericoloso. Forse è troppo complicato per la politica attuale impegnarsi in qualcosa che non sia uno spot?