Almeno 11 persone sono morte e altre 30 sono rimaste ferite la notte scorsa a Tripoli in seguito ad una serie di raid aerei condotti, secondo fonti del governo di unità nazionale, con droni da forze fedeli al generale Khalifa Haftar. Lo riferiscono fonti mediche nella capitale contattate telefonicamente. Il conto delle vittime “potrebbe aggravarsi”, si afferma. Il bombardamento ha centrato poco prima della mezzanotte un’area circa 9km a sudovest dal cuore della capitale.
Haftar “copre le sconfitte militari bombardando con aerei stranieri i civili disarmati a Tripoli”, afferma in una nota Mohanned Younis, il portavoce del presidente del Consiglio presidenziale libico Fayez al Sarraj. Che sottolinea il “lassismo e il silenzio” della missione Onu e del Consiglio di sicurezza nei confronti del “criminale Haftar”. Il bombardamento su Tripoli “è un crimine di guerra che si somma agli altri perpetrati dall’inizio dell’aggressione”, ha aggiunto Younis.
La Compagnia petrolifera libica (Noc) chiede “l’immediata cessazione delle ostilità” che “mettono in serio rischio le nostre attività, la produzione e l’economia nazionale”. La Noc, afferma il presidente Mustafa Sanalla, “è fortemente preoccupata per “la minaccia alle infrastrutture energetiche” e la “militarizzazione” di alcuni impianti e terminal, facendo in particolare riferimento a Es Sider e Ras Lanuf, sotto il controllo delle forze di Haftar.
E’ salito a 40.100 il numero degli sfollati dall’inizio degli scontri armati nella capitale e nei suoi dintorni. Lo scrive l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari (Ocha) in un aggiornamento sulla situazione, precisando che le aree a sud di Ain Zara, Khala, Azizya, Qasr Bin Ghashir, Wadi Rabiya e Suani sono largamente inaccessibili agli operatori umanitari a causa dei combattimenti e che la comunità internazionale dell’assistenza continua a chiedere una tregua e un corridoio umanitario per poter raggiungere coloro che hanno bisogno di aiuto e di essere evacuati. Circa 3.300 rifugiati e migranti restano intrappolati in centri di detenzione situati in aree colpite dai combattimenti o in aree a rischio di conflitto armato.