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Il fantasma del periodo especial – o periodo especial 2.0, come già lo chiamano i più assuefatti alle nuove tecnologie – è tornato ad aleggiare cupamente sulla Cuba rivoluzionaria. Il suo odore è, come nel caso del suo ancor più tetro predecessore, quello inconfondibile della fame. La sua forma è ancora una volta quella, molto ben definita, delle chilometriche file di fronte a negozi perlopiù semivuoti, o ancora quella molto più astratta ma altrettanto riconoscibile del quotidiano resolver: l’arte antica dell’arrangiarsi che, da sempre parte della prassi rivoluzionaria cubana, viene moltiplicata dai “periodi speciali” (siano essi 1.0 o 2.0) regolarmente ed esponenzialmente. Molto diversi – nell’implacabile approssimarsi di questo spettrale “upgrade” – si preannunciano tuttavia i suoi sapori.
Il periodo especial 1.0 aveva, com’è noto, lasciato nei palati cubani gusti unici al mondo e non esattamente gradevoli, da allora entrati nella memoria collettiva – destino questo comune a quasi tutti i cattivi ricordi – in forma di barzelletta. Quali gusti? Quello, giusto per dirne uno, del “picadillo de soya” o “extendido”, un misto di pochissima (o più probabilmente nessuna) carne tritata e, per l’appunto, di germi di soia. Gusto che subito si tradusse in uno slogan, “soyalismo o muerte”, ancor oggi frequentemente ripetuto, specie all’ora del pranzo. O quello, volendo continuare con gli esempi, del “bistec de toronja”, la bistecca di pompelmo, pietanza da allora divenuta grottesco simbolo di carestia (anche se arricchita con uova, articolo questo pressoché irreperibile durante il primo periodo speciale, tale ricetta ha in seguito acquisito lontano da Cuba una certa popolarità tra i vegetariani meno radicali).
Non si può ovviamente escludere che, a periodo especial riaperto, il bistec de toronja e il picadillo de soya facciano – insieme ai molti altri intingoli a base di soia che marcarono l’1.0 – una sgradita riapparizione. Ma per il momento i sapori che prevalgono (con relative barzellette) sono altri e, per molti aspetti, ancor più surreali. Trattasi dei sapori, ai più sconosciuti, della carne (e delle uova) di struzzo, della carne della jutía conga (un roditore autoctono cubano in via d’estinzione) e della carne di coccodrillo.
Oggi il generale e “Comandante della Rivoluzione” ha la veneranda età di anni 91 ed è responsabile della Empresa Nacional para la Protección de la Flora y la Fauna, veste in cui giorni fa ha partecipato a una puntata della Mesa redonda (“tavola rotonda”, storica trasmissione della tv cubana) per presentare un audace progetto teso a far fronte, in vista dei tempi duri, alla tradizionale scarsità di carne. Tale progetto – già in avanzata fase d’attuazione – prevede per l’appunto la “coltivazione” (proprio così l’ha definita il generale) di struzzi, jutía conga e coccodrilli. Struzzi soprattutto, considerato che la loro carne ha qualità proteiche molto superiori a quella bovina; e che, producendo gli struzzi grandi quantità di uova (anch’esse commestibili), hanno una capacità riproduttiva molto superiore a quella delle vacche.
Perché tanto sarcasmo? Dopotutto García Frías non ha detto cose assurde. Anzi. La carne di struzzo vanta davvero le eccellenti qualità, non solo proteiche, decantate dallo stagionato eroe rivoluzionario. E la carne della jutía conga è non solo commestibile, ma nella sua rarità – vedi Slow Food – materiale da haute cuisine, roba per raffinatissimi palati e per portafogli rigonfi.
Dunque, a che si deve questo torrenziale flusso di meme? In parte alla molto vetusta immagine del generale (a suo modo anche lui un “fantasma”, come il periodo especial). In parte all’uso, in verità bizzarro, del verbo “coltivare” (da uno dei meme: “quante volte al giorno bisogna annaffiare uno struzzo?”). Ma un’altra è, in realtà, la ragione vera e più profonda. Il regime che va oggi prospettando “coltivazioni” di struzzi e jutía conga è il medesimo che per meriti propri, non a causa della pur assai reale e dolorosa prepotenza dell’embargo, ha di fatto distrutto le “coltivazioni” di vacche, buoi, polli e maiali sull’isola, che prima della rivoluzione (pur nell’ingiustizia, nella diseguaglianza e nella corruzione che dominava quello che di fatto non era che un protettorato degli Usa, o il loro “luna park” come qualcuno diceva) vantava, almeno in materia di carne, una piena autonomia alimentare.
Una storia, questa, che continuerò a raccontare in un prossimo post.