Tempi duri per la festa del 1° maggio in Italia. Tempi duri per i lavoratori, durissimi per il lavoro. Nonostante la Costituzione (art.1), nonostante le organizzazioni sindacali italiane siano tra le più ricche e diffuse dell’Europa civile, il 1° maggio si è trasformato in poco più di un concerto rock di basso livello, e non senza polemiche. Mancano i lavoratori (tanto terziario, secondario in crisi) e soprattutto manca il lavoro. Non mancano invece gli incidenti sul lavoro. La Costituzione non è stata abrogata, ma l’Italia è sempre meno un Paese fordista: salari bassissimi, dove non solo “non si fa più l’amore” (Celentano), ma dove sempre più il lavoro è lasciato alle leggi della jungla, in particolar modo per i giovani. Dove soprattutto non è il labor (la fatica, l’impegno) a costituire la fonte di reddito degli italiani, ma altre attività ben note e meno pubblicizzabili, di cui tacciamo per carità di patria. Altro che festa dei lavoratori!
La storia del lavoro in Italia è sempre stata una vicenda triste. Il Paese non ha mai creduto veramente che quella del sudore fosse la strada maestra per far ricchi gli italiani e per far crescere il Paese. Siamo un popolo di amanti delle scorciatoie. Ha influito certamente il cattivo esempio dei pochissimi ricchi, arrivati all’abbondanza nella stragrande dei casi attraverso mezzi discutibili o accumulazioni tanto repentine quanto torbide, nella migliore delle ipotesi – amicizie, favori, assenza di leggi. Poi ci ha messo del suo la mentalità “religiosa”, inerte di fronte al merito personale, al successo terreno, che ha preferito sottolineare aspetti più adatti a una società fatta quasi solo di poveri, come quella medievale: la ricchezza come male assoluto, a prescindere. Infine sono arrivati i socialisti e i comunisti, con le loro idee del conflitto di classe come fenomeno storico ineluttabile, con il desiderio di persuadere i poveri che conta solo il salario, il reddito, e non la funzione sociale o i valori di cui si è portatori. Sicché invece di aumentare i redditi è cresciuta l’invidia, la perdita di consapevolezza dell’importanza del lavoro, a prescindere (non necessariamente) dallo stipendio.
In questo sfondo culturale tutto italiano, la strutturale ed eccedente offerta di lavoro e la ristrettezza dei capitali circolanti hanno fatto il resto e dettato l’evoluzione del lavoro, anche per gli anni postindustriali, quando tutto avrebbe dovuto essere ormai cambiato in meglio da decenni. Che senso aveva infatti sviluppare un settore terziario moderno ed efficace, in grado di condurre lo sviluppo del Paese, se precedentemente il secondario non era giunto alla maturazion, in termini di capacità produttive, redditi e condizioni sociali? Questo è quello che è accaduto in Italia, con il benestare degli italiani (“meglio un uovo oggi che una gallina domani”) e dei loro governi, da metà degli anni 60 in poi. Con la compagnia dei politici-camerieri, che hanno finito per servire gli interessi di pochi grandi imprenditori, illudendosi e illudendoci di lavorare per il nostro bene e producendo, invece, solo la deindustrializzazione del Paese e la cancellazione di quasi ogni tutela sul lavoro.
Così alla fine oggi la Festa del Lavoro in Italia è un ossimoro, una contraddizione in termini, una fantasia erotica. Non dobbiamo però disperare. In economia vige un principio, “no free meals“: c’est à dire che l’imbroglio non può durare in eterno. La finanza non ci rende ricchi, alla pari delle aziende tirate su a sovvenzioni e favori. Le ricchezze accumulate in tempi di record sono solo un balzello, che forse altri, forse gli stessi ricchi, pagheranno prima o poi. Dobbiamo aver fiducia. Lo sviluppo del Paese passa necessariamente attraverso la valorizzazione del lavoro, esattamente come prescrive la Costituzione, passa dalla porta d’ingresso del riconoscimento del merito. I salari sono destinati a crescere e le retribuzioni in generale dovranno essere graduate secondo il merito, non secondo i privilegi.
Non c’è alternativa. Tutti gli altri mezzi per cercare di creare benessere nel Paese sono destinati all’insuccesso. Non c’è alternativa alla fatica, all’impegno e al lavoro se vogliamo creare una società ricca e giusta. I politici stentano ancora a capirlo (non lavorano!), ma gli italiani lo sanno, anche quelli che non lo praticano. E prima o poi si stuferanno e convinceranno i politici a sviluppare e proteggere l’unica attività che consente alle società di prosperare da che mondo è mondo: il lavoro. Allora, con maggiore soddisfazione di oggi, festeggeremo il 1° maggio, la Festa del Lavoro.