A metà aprile si è svolta a Washington una riunione dei ministri delle Finanze di 26 paesi per lanciare una coalizione volta a promuovere una azione collettiva sui cambiamenti climatici. L’iniziativa, che ha preso il nome di “Coalizione mondiale dei ministri delle finanze per l’azione per il clima”, era stata lanciata a febbraio ad Helsinky dai governi dei paesi nordici per promuovere le azioni di pertinenza nazionali sul clima, in particolare attraverso la politica fiscale e l’uso delle finanze pubbliche. Come ormai è d’abitudine, a riunioni internazionali orientate a cooperazione e ad impegni condivisi per affrontare le emergenze, non era presente l’Italia. Dopo l’assenza dalla conferenza di Marrakesh sui rifugiati e il voto contrario in sede Onu sulla dichiarazione di illegalità del possesso di armi nucleari, di nuovo il nostro Paese ha seguito la strategia dei sovranisti guidati da Bannon in Europa e da Trump nelle due Americhe. Anche questa volta si trattava di promuovere politiche internazionali non aggressive e ispirate a solidarietà, ma noi eravamo assenti.
Non c’è giornale, o rivista o TG nazionale che abbia dato notizia che quella convenzione ha rappresentato l’unico atto intergovernativo politicamente impegnativo dopo l’allarme sollevato da Greta Thunberg e dagli studenti di Fridayforfuture. E non si trattava di un consesso clandestino di ambientalisti visionari, ma addirittura – e a sorpresa – di un evento organizzato dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario, allarmati per il collasso climatico in corso.
La partecipazione e l’adesione al documento finale di Austria, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Spagna, Svezia, Gran Bretagna e altri 14 Paesi pone un duplice problema: da che parte sta il governo gialloverde sul rispetto degli accordi di Parigi? E, inoltre, cosa intende fare per una urgente decarbonizzazione ed una conseguente riconversione ecologica dell’economia? Tutta la campagna elettorale e le apparizioni del trio di governo parlano d’altro: della difesa dei corrotti, delle coperture a CasaPound, della paura di migranti che vanno lasciati a morire, ma mai del futuro delle stesse generazioni che dovrebbero andarli a votare. E c’è una certa complicità della stampa se i nostri schermi, smartphone e giornali del mattino non fanno mai cenno al tempo che viene a mancare, mentre ci rimpinziamo di tweet e aggressioni verbali sparati al mattino e dimenticati la sera.
Vediamo allora di riempire questi vuoti dando notizia di un avvenimento, perfino moderato, ma talmente responsabile da non poter essere saltato nell’agenda politica di un governo di un Paese ancora rilevante sul piano mondiale
Con i ministri delle Finanze, invitati d’obbligo, a Washington dal 19 al 25 aprile hanno partecipato 2.800 delegati di paesi da tutto il mondo, 350 rappresentanti delle organizzazioni di osservatori e 800 membri della stampa e circa 550 membri della società civile. A conclusione dei lavori è stata lanciata una agenda di impegni in cui si riconosce che “il cambiamento climatico rappresenta una minaccia significativa per le nostre economie, società e ambienti, compresi i rischi per la crescita economica e la stabilità macroeconomica, e che è urgente accelerare l’azione per prevenirlo”. I titolari delle Finanze puntano ad accelerare una transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio e resiliente ai cambiamenti climatici e in particolare per: 1) Stabilire una tassa sulle emissioni di biossido di carbonio o altri gas a effetto serra, onde favorire il risparmio energetico e la diffusione di tecnologie a basse emissioni di carbonio. 2) Ricorrere a carburanti alternativi e disincentivare l’uso di carburanti fossili. 3) Ridurre o eliminare i sussidi per i carburanti fossili. 4) Indirizzare e favorire gli investimenti e lo sviluppo di un settore finanziario che supporti la mitigazione e l’adattamento alle catastrofi climatiche. 5) Impegnarsi attivamente nell’attuazione dei contributi determinati a livello nazionale (Nationally Determined Contributions, NDC) presentati ai sensi dell’accordo di Parigi.
Su quest’ultimo punto un dettaglio importante: dopo l’accordo di Parigi, le parti hanno concordato un obiettivo a lungo termine per mantenere entro il limite di 1,5°C l’aumento di temperatura medio del pianeta, in modo da non minacciare, tra l’altro, la produzione alimentare. Inoltre, hanno concordato di lavorare per rendere i flussi finanziari coerenti con un percorso verso basse emissioni di gas serra. I contributi determinati a livello nazionale (NDC) sono il fulcro dell’accordo di Parigi e rappresentano gli sforzi di ciascun paese per ridurre le emissioni nazionali. L’articolo 4 al paragrafo 2 impone a ciascuna parte di preparare, comunicare e mantenere entro i limiti dichiarati i contributi annuali determinati a livello nazionale, anno dopo anno, a cominciare dal 2020. Insieme, queste azioni climatiche determinano se il mondo raggiunge gli obiettivi a lungo termine dell’accordo di Parigi per raggiungere il picco globale delle emissioni di gas a effetto il prima possibile e procedere a riduzioni rapide in seguito. Per fare un esempio, la Svezia, oltre a impegnarsi a decarbonizzare la propria flotta di veicoli entro il 2030, ha comunicato di aver aumentato la tassa sul carbonio da $ 30 per tonnellata di CO2 emessa nel 1991 a $ 142 / tCO2e nel 2019, consentendole di diminuire del 26% le emissioni e di arrivare al 40% entro il 2020, per pervenire a zero emissioni nette entro il 2045.(Fonte: Ministero delle finanze, delle tasse e del Cusfoms, Svezia)
E In Italia che si fa? Cosa ne pensano degli NDC i governanti che hanno già messo in soffitta Greta con le manifestazioni dei giovani fino allo sciopero annunciato per il 24 maggio? Capisco che il povero ministro delle Finanze italiano Tria sia occupato a districarsi nelle varie flat tax e a sottrarsi agli schiaffoni congiunti dei due suoi vicepresidenti, ma, almeno, potrebbe dire dove era in quei giorni in cui a Washington si prendeva atto di una crisi epocale che riguarda il mondo intero?