Il caos lo ha creato la riforma Delrio, appesa a metà dal ddl Boschi affossato dal referendum costituzionale. Il governo Renzi ci aveva scommesso tutto, tanto da non preoccuparsi di cosa sarebbe accaduto in caso di bocciatura. Poi arrivata. Così lo smantellamento era già iniziato e invece, a cinque anni di distanza, le Province che non dovevano esserci più restano e resistono. E gestiscono ancora servizi pubblici essenziali, come scuole e viabilità, ma con minori stanziamenti e personale. In balia anche di un riordino delle funzioni, iniziato nel 2015, portato avanti in maniera disomogenea da Milano a Reggio Calabria. Due amministrazioni a guida leghista – Lombardia e Veneto – hanno di fatto riassegnato tutte le funzioni agli enti intermedi, mentre altre (è il caso della Toscana) le hanno trattenute. Ne viene fuori un quadro frastagliato al quale si è cercato di trovare una soluzione grazie al tavolo tecnico-politico per la redazione di linee guida finalizzate all’avvio di una revisione organica dell’ordinamento, istituito dal decreto Milleproroghe del 2018 e insediato al ministero dell’Interno sotto la presidenza del sottosegretario leghista Stefano Candiani e al quale ha partecipato la vice-ministra dell’Economia Laura Castelli.
Upi: “Sull’elezione decida il Parlamento, ma funzioni chiare”
“Al tavolo hanno tutti convenuto sulla necessità di chiarire le funzioni delle Province e sulla gravità dell’aver sottofinanziato questo ente locale”, spiega a Ilfattoquotidiano.it il presidente dell’Unione Province italiane, Michele De Pascale. Sindaco di Ravenna eletto con il Pd e poi scelto dai colleghi dei comuni limitrofi alla guida della Provincia, De Pascale parla di un “incredibile dibattito” scoppiato in questi giorni: “Si parla della doppia funzione e del problema stipendi, non della sicurezza nelle scuole da noi gestite, nelle quali entrano ogni giorno 2,5 milioni di studenti. Il vero tema è quello”. Tanto che, sottolinea il numero uno dell’Upi, “sulla governance siamo stati molto chiari: la necessità di un ritorno all’elezione diretta, alla quale siamo favorevoli, non è per noi un must. Decida il Parlamento, siamo disposti ad andare avanti come ora, ma venga stabilito in maniera chiara quali sono le nostre funzioni e di conseguenza vengano assegnati i fondi per gestirle”. Quindi la richiesta rivolta a Luigi Di Maio sulla questione delle “poltrone” che divide Lega e M5s: “Ad oggi non ci sono poltrone, visto che i non più di 900 amministratori che le governano lo fanno gratis. Abolire le Province oggi quindi produrrebbe un risparmio pari a zero in termini di costi della politica, in cambio di nuovo caos nel sistema”. Fermo restando, ammette De Pascale, che la riforma Delrio rimasta incompiuta “ha avuto un solo elemento positivo: creare un ruolo di coordinamento tra i Comuni, che ora hanno un link diretto con la Provincia, essendo rappresentati nell’amministrazione, prima invece il rapporto rischiava di essere conflittuale per ragioni politiche”.
La disomogeneità tra Regioni ordinarie e statuto speciale
Ma l’incompiuta del governo Renzi è nei dati, raccolti in un dossier dell’Upi che Ilfattoquotidiano.it ha potuto visionare. Prima della legge Delrio le Province italiane erano 107, elette direttamente dai cittadini, e avevano circa 43mila dipendenti in dotazione. La riforma ha toccato le 86 delle Regioni a statuto ordinario, che sono diventate 76 Province e dieci Città metropolitane. Nelle Regioni a statuto speciale la riforma è stata invece disomogenea: le 9 Province siciliane si sono trasformate in 6 Liberi Consorzi e 3 Città metropolitane, le 8 sarde sono diventate 4 Province e una Città metropolitana, in Friuli Venezia Giulia si è passati da 4 Province a 18 Unità territoriali. Gli effetti dirompenti, al di là dei nomi scelti e della discrepanza tra Regioni, si sono avuti sulle funzioni. La riforma stabilisce che restano in capo alle Province la gestione dell’edilizia scolastica delle medie superiori e la costruzioni e gestione delle strade provinciali. Nel primo caso, si tratta di oltre 5100 edifici scolastici nei quali studiano più di 2,5 milioni di ragazzi. Per quanto riguarda la viabilità, invece, si parla di 130mila chilometri di strade, pari all’80% della rete viaria nazionale sulla quale insistono 30mila ponti, viadotti e gallerie. Come evidenziato da un monitoraggio ordinato dal ministero delle Infrastrutture dopo il crollo del ponte Morandi, molti sono in condizioni critiche.
Il caos del riordino su base regionale delle funzioni
In capo alle Province sono rimaste anche pianificazione territoriale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell’ambiente, pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali, funzioni di stazione appaltante e organizzazione di concorsi e procedure selettive. Nel 2015 – spiega il dossier dell’Upi – le Regioni attraverso leggi specifiche hanno provveduto al riordino: “La maggior parte ha riaccentrato in capo alla Regione o ad enti/agenzie strumentali regionali le funzioni di area vasta”. Il quadro finale è “estremamente disomogeneo”, denunciano le Province. “Si va da chi (Lombardia) riassegna praticamente tutte le funzioni alle Province – fanno notare gli amministratori – e chi (Toscana) le trattiene tutte, arrivando ad assumere a sé anche funzioni fondamentali come l’ambiente”.
Il personale tagliato, le risorse e i bilanci
Due leggi di Bilancio, quelle del 2014 e la seguente, hanno tradotto in fatti la cura dimagrante. La Manovra del 2014 ha tagliato 3 miliardi di finanziamenti nel triennio 2015-17, quella di quattro anni fa ha sforbiciato del 50% il personale delle 76 Province: 16mila dipendenti sono stati trasferiti con procedura di mobilità o sono finiti in pensione. Nel dettaglio, si legge sempre nel dossier dell’Upi, 7.185 unità sono state ricollocate nelle Regioni, 720 sono finiti in ministeri o tribunali, 2.564 sono andati in pensione e ben 5.505 è stato trasferito nei Centri per l’impiego. Con il paradosso che alcuni barellieri si sono ritrovati a fare i cancellieri, come raccontò Ilfatto.it nel 2016. “L’incidenza media dei tagli delle manovre economiche dal 2012 al 2018 sulle entrate proprie delle Province è pari al 60,4% – scrive l’Unione delle Province italiane – La Corte dei Conti parla di “tagli manifestatamente ingiustificati” evidenziando gli effetti disastrosi che avranno sui servizi essenziali ai cittadini”. In altre parole, secondo l’Upi, “senza risorse e con personale dimezzato” le Province “si trovano a gestire praticamente le stesse funzioni”.
Le misure di sostegno (aumentate dal governo Lega-M5s)
Così per garantirle dal 2016 i governi sono intervenuti con “misure di sostegno”, cresciute con il governo Lega-M5s. Nel 2018, infatti, erano stati assegnati 317 milioni per il 2018, 110 milioni per il 2019 e il 2020 per la manutenzione straordinaria di strade e scuole superiori. La legge di Bilancio 2019 varata dal governo Conte ha assegnato invece per ogni anno dal 2019 al 2033 una cifra pari a 250 milioni di euro. Stanziamenti “tampone” a fronte di un fabbisogno stimato dall’Upi assai maggiore per entrambe le funzioni. Al quale non si riesce a far fronte nonostante la qualificazione della spesa corrente, diminuita del 6,4% dal 2017 al 2018 con un risparmio di 300 milioni. Stando ai dati estratti dal Siope – il Sistema informativo su pagamenti delle pubbliche amministrazioni che incrocia i dati di Ragioneria generale dello Stato, Banca d’Italia e Istat – si tratta della performance migliore tra gli enti locali: il risparmio dei Comuni è stato pari all’1,1 per cento mentre le Città metropolitane hanno incrementato la spesa dell’8,17%.
La rivendicazioni dell’Upi: “Soldi da investire”
“Per contro, la spesa per investimenti – si legge nel dossier – dopo sei anni di costante diminuzione tanto da avere toccato tra il 2011 e il 2018 un -60%, inizia a mostrare i primi segni di ripresa: i dati di confronto tra il primo bimestre 2018 e il 2019 fanno infatti registrare un +6%”. Effetti positivi deriveranno anche, come ha spiegato il direttore generale dell’Upi Piero Antonelli a fine marzo, anche grazie all’ultima legge di Bilancio che ha liberato gli avanzi di amministrazione ed eliminato tutte le sanzioni per il 2018. Oltre ad assegnare 50 milioni di euro per i ponti sui fiumi del bacino del Po e 120 persone delle 300 che verranno assunte dalla Struttura per la progettazione. Pur restando in piedi i problemi della spesa corrente per garantire l’equilibrio di bilancio – nel 2017, secondo l’ex presidente dell’Upi, Achille Variati, mancavano 650 milioni – oltre alla programmazione della gestione ordinaria e il problema delle assunzioni “ancora oggi soggette a vincoli di finanza e reso più critico dall’entrata in vigore di quota 100”, evidenziava Antonelli al seminario sui Programmi di investimento delle Province.
Il piano delle piccole opere (ma non del tutto finanziate)
Senza contare quella che l’Upi ritiene la necessità più impellente: l’individuazione di fondi specifici per gli investimenti. “Se ci venissero assegnate le risorse, avremmo pronti oltre 3,5 miliardi di progetti cantierabili nel prossimo biennio – dice De Pascale – Una cifra che finirebbe nelle tasche della piccola-media impresa, dandole sostegno”. Il riferimento è alle stime fatte dalla stessa Unione delle Province nel monitoraggio su ponti, viadotti e gallerie dopo il crollo del ponte Morandi. In ballo ci sono 1.712 progetti cantierabili tra l’anno in corso (630) e il prossimo (1082) per un fabbisogno di circa 2,5 miliardi di euro ai quali si aggiunge mezzo milione per il monitoraggio in continuo. Per la messa in sicurezza degli edifici scolastici, invece, bisogna rifarsi al quadro del decreto 615 del 2018 del ministero per l’Istruzione: risultarono ammissibili nei bandi regionali del Fondo triennale per l’edilizia scolastica 762 progetti presentati dalle Province. Ne sono stati finanziati 170 per un importo di quasi 300 milioni di euro. “Restano dunque senza finanziamento, pur essendo pronti per essere immediatamente cantierati, gli interventi per mettere in sicurezza – fa notare l’Upi – 592 scuole secondarie superiori, per una spesa di 1 miliardo 686 milioni”.
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