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Dunque, perché le molto austere ed indubbiamente benintenzionate parole del “comandante della rivoluzione”, Guillermo García Frías – uno dei non molti sopravvissuti, ormai, della gloriosa saga della Sierra Maestra – sono finite sepolte sotto una valanga di frizzi, lazzi, sberleffi e spernacchiate varie, tanto nella tradizionale forma di “radio-bemba”, radio labbra (ovvero, della barzelletta trasmessa di bocca in bocca), quanto in quella, modernissima, dei meme? E in che modo questi frizzi, lazzi, sberleffi e spernacchiate vanno preannunciando, come mosche cocchiere, l’imminente arrivo dei tempi duri d’un nuovo “periodo especial”? Le ragioni partono da lontano – da prima della rivoluzione castrista per molti aspetti – e percorrono, in ogni suo anfratto, tutta la storia alimentare (quella carnivora, in particolare) della Cuba castrista.

Narrano infatti le cifre riportate dall’Anuario Estadistico de Cuba come, nell’anno del signore 1958 – quello che, poco prima della mezzanotte del suo ultimo giorno, avrebbe visto la fuga del tiranno Fulgencio Batista – i capi di bestiame fossero, nell’isola, qualcosina più d’uno per ciascuno dei sei milioni d’abitanti d’allora. Più esattamente: 6.325.000, dei quali 940.000 erano vacche da latte, più che sufficienti per garantire – garantire, va da sé, “statisticamente”, in una situazione di grandi diseguaglianze economico-sociali – tutta la carne ed i prodotti caseari di cui il paese aveva bisogno.

Già nel 1989, alle soglie del primo “periodo speciale”, quel rapporto s’era tuttavia ridotto a 1 a 2, in una situazione nella quale la carne – in particolare quella di vitello e quella di maiale, le più tradizionalmente bramate dai cubani – era indubbiamente, rispetto al passato, molto più equamente distribuita tra la popolazione. Cosa, questa, non particolarmente complessa, visto che, a conti fatti, si trattava di redistribuire il nulla, essendo la carne di vitello e di maiale già in quegli anni reperibile, in pratica, solo nei ristoranti o nei mercati riservati, in una logica di vero e proprio apartheid, ai turisti stranieri. Undici anni più tardi, iniziato il nuovo millennio e superate le forche caudine del primo periodo speciale, quel rapporto era diventato di 1 ogni 3. E tale è ancor oggi, mentre il “periodo especial 2.0” bussa alla porta. In tutto il settore agroalimentare, Cuba produce oggi – non solo in termini relativi, ma in termini assoluti – molto meno di quel che produceva prima della rivoluzione.

Le ragioni di questo disastro? La versione ufficiale vuole, ovviamente, che tanta scarsità – contrapposta alla diseguale abbondanza dei tempi pre-rivoluzione – non sia che il riflesso d’una gloriosa lotta di resistenza all’assedio dell’Impero del Nord. E va da sé che, se valutata in senso lato (molto lato) non si tratta affatto (o soltanto) d’una invenzione propagandistica. L’assedio è, infatti, non “una” realtà, ma, per molti aspetti, “la” realtà della storia della Cuba castrista. E tuttavia molto reali, anzi molto più reali e visibili, molto più dirette ed incriminanti – laddove di delitti contro la disponibilità di carne, latte ed alimenti in genere si tratta – sono le impronte digitali ovunque lasciate da quello che, del regime castrista, è stato un elemento fondante: il culto della personalità. E, più specificamente: della pretesa ed incontestabile onniscienza – in ogni campo, ma in particolare in quello agricolo-alimentare – dell’indiscusso “líder máximo”, Fidel Castro Ruz. Ovvero: del lato più oscuro – tragicomico, come tragicomico è, in ultima analisi, ogni culto della personalità – d’un personaggio che, pure, è senza dubbio annoverabile tra i più significativi leader politici del XX secolo.

La carne di struzzo e di jutía conga osannata giorni fa durante la “Mesa redonda” dall’attempato generale García Frías, è entrata nelle mente del “cubano de a pie”, dell’uomo della strada, come, per l’appunto, l’ultimo atto d’una lunga storia, grandiosa e ridicola al tempo stesso, lungo la quale s’incontrano, in una forse unica miscela di titanica utopia e di dispotica saccenteria, tutti i rovinosi relitti di idee mirabolanti ed immancabilmente svanite nel nulla della propria grandeur. C’è, alla base di tutto, la realtà d’una riforma agraria basata sulla collettivizzazione delle terre (contro, tra l’altro, quello ch’era il programma originale del movimento rivoluzionario). C’è l’epica – ed epicamente fallimentare – storia della “zafra dei 10 milioni” nel 1970. Così come ancor prima, nel 1968, c’era stata – sempre partorita dall’insindacabile mente di Fidel – la storia del “cordón de la Habana” che, nel tentativo di coltivare in pianura, nelle periferia della capitale, il “caffè caturra” (una variante dell’arabica), distrusse gran parte dell’esistente produzione di frutta. Ci sono, sparse ovunque, le reliquie della volontà di creare – un costosissimo pallino, questo, del “comandante en jefe” – una nuova e superlativa razza bovina in grado, non solo di soddisfare la domanda interna di latte e carne, ma di trasformare Cuba in una planetaria potenza casearia.

Alla fine di questa storia, ci sono, di nuovo, il “picadillo extendido” e il “bistec de toronja”, molto cubana variante di quella che, da altre parti, si chiama “fame”. C’è l’osanna ad una carne di struzzo e di jutía conga che mai arriverà sulle tavole del cubano qualunque. E c’è un monumento che è anche, probabilmente, la più nitida metafora della Cuba castrista, della sua grandezza e della sua miseria: quello, scolpito nel marmo, che a Gerona, nella Isla de la Juventud, è stato dedicato a Ubre Blanca (mammella bianca), la vacca – un incrocio, da Fidel concepito, tra la razza Holstein, ubertosa figlia delle valli svizzere, e la razza Cebú, originaria delle aride pianure africane – che, a cavallo tra gli anni 70, frantumò, uno dopo l’altro, tutti i record mondiali di produzione di latte. Per poi andarsene senza eredi – probabilmente uccisa da un cancro causato dagli esperimenti genetici di cui era il frutto – lasciandosi alle spalle un paese nel quale il latte disponibile era (e continua ad essere) meno della metà di quello prodotto prima della rivoluzione (qui tutta la storia in italiano).

Sta dunque andando, Cuba, verso una Ubre Blanca con piume? O, per uscir di metafora, stanno tornando i più duri dei tempi duri? Pare di sì. E di questo – proprio perché non c’è niente da ridere – Cuba già ha cominciato a sghignazzare disperata.

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