Non lasciatevi ingannare dalla bella faccia di Jake Gyllenhaal: la realtà delle scalate alla cima più alta del mondo è ancora più prosaica di come la racconta Everest, il film che in questi giorni passa in televisione. Quest’anno su entrambi i versanti di salita, in Nepal e in Cina, sono stati necessari grandi lavori di pulizia. I nepalesi hanno appena riportato a valle le prime 3 tonnellate di rifiuti, delle 11 che si sono ripromessi di pulire: lattine, scatolette, bombole d’ossigeno, bottiglie di plastica, corde, attrezzi d’arrampicata e pure i primi quattro cadaveri. Lo scioglimento dei ghiacciai dovuto al riscaldamento globale sta aggravando il problema, riportando in superficie di tutto, persino braccia e gambe di corpi intorno ai campi base. Si calcola che siano più tra 200 e 300 i morti rimasti nella neve e nel ghiaccio, dei quattromila che hanno sfidato l’Everest. Alcuni corpi sono stati usati cinicamente come punto di riferimento per chi sale: è il caso del cadavere più famoso, soprannominato “Green Boots” per via del colore verde dei suoi scarponi, che anni è stato scavalcato con una certa soddisfazione, prima che qualche sherpa pietoso si decidesse a spostarlo. Un corpo congelato arriva a pesare anche 150 chili e a quelle quote ci vogliono otto persone per sollevarlo.
Il primo uomo a scalare gli Ottomila senza ossigeno, Reinhold Messner, che più di 40 anni fa ha dato il suo eccezionale contributo alla mitologia alpinistica, si chiedeva in uno dei suoi libri più intensi, 13 specchi della mia anima (Garzanti 1995): “Non so risolvere il dilemma se sia diventato anch’io un distruttore del sublime delle montagne, un veicolo pubblicitario involontario per il turismo di massa. Mi sento corresponsabile se anche sull’Himalaya si perde il sublime e il silenzio. La moltiplicazione delle esperienze riduce il contenuto, l’esplorazione dell’estremo viene tradita e stravolta nel suo contrario”.
Per dirla senza parafrasi, altro che sublime: sangue e merda sono oggi la realtà di questa allucinante versione consumistica dell’alpinismo. Il problema più grave viene dalla quantità di deiezioni umane disperse in ambiente. Sul versante cinese, dopo le grandi pulizie che hanno richiesto la chiusura di tutta la via salita per mesi, è stata installata una toilette al campo più alto, a quota 7.028 metri, che raccogli gli escrementi dentro un barile con appositi sacchi della spazzatura. Anche il governo nepalese sta cercando di correre ai ripari, c’è in progetto un impianto a biogas da installare vicino al campo base, dove al momento il liquame grezzo viene trasportato al villaggio più vicino con un’ora di cammino e rilasciato in fossati, contaminando le acque che scendono a valle.
Ma niente sembra poter fermare il business che puntualmente torna a inquinare gli Ottomila, e lascia giusto qualche spicciolo in tasca alle popolazioni locali, ridotte a fare da servi della gleba a signorotti che vengono da un altro mondo. Il mountain blogger della Gazzetta dello sport Alessandro Filippini riporta dati dell’unico pilota italiano di elicotteri, Maurizio Folini, che in cinque voli al campo 2 ha depositato 20mila metri di corde (sono di nylon trattato con sostanze chimiche, dunque altamente inquinanti), 36 bombole, 96 viti da ghiaccio, 100 moschettoni e 100 picchetti, ovvero il materiale con cui gli sherpa attrezzano la via normale. Il Nepal quest’anno ha rilasciato 375 permessi di salita (indiani, americani, cinesi e inglesi fanno la parte del leone), la Cina 364 (di cui 220 solo per gli sherpa, perché ormai sono in vendita pacchetti extra-lusso con una guida e due accompagnatori per “scalatore”). Ma, se si considera anche il personale di servizio, si sono assiepate in questi giorni più di un migliaio di persone nei cosiddetti campi base dell’Everest, ovvero gli immondezzai più alti del mondo. E chissà se un qualche ‘meme’ di maledizioni di Greta arriverà fin lassù.