Un passo in avanti verso la verità. Ma un solo tassello non basta a ricostruire per intero il mosaico che ha per soggetto il rapimento e la morte di Giulio Regeni, il cittadino italiano ucciso in Egitto all’inizio del 2016, e soprattutto a delinearne motivi e responsabilità. La testimonianza di un uomo che avrebbe ascoltato un funzionario della Amn el-Dawla (l’agenzia di sicurezza nazionale che fa capo al Ministero dell’Interno) ammettere il pedinamento e il sequestro del ricercatore di Fiumicello perché sospettato di essere una spia, rivelata da alcuni quotidiani, è stata acquisita nelle scorse settimane dagli inquirenti italiani. Di conseguenza, il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e il pubblico ministero, Sergio Colaiocco, titolare del fascicolo, hanno inoltrato una nuova richiesta di rogatoria internazionale, l’ennesima, ai loro colleghi del Cairo. Di certo in questa storia gli squarci di verità rimangono pochi rispetto alla mole di depistaggi, omissioni, pressioni e incongruenze che hanno caratterizzato la vicenda sin dalle primissime ore. E che qui proviamo a ricostruire, con alcuni dettagli mai rivelati prima.
L’uomo dei misteri
L’uomo che avrebbe rivelato (durante una conversazione origliata al bar di una capitale africana nel 2017 da un testimone rimasto per ora anonimo) il suo coinvolgimento nel rapimento di Giulio Regeni è il maggiore Sharif Magdy Abdel Aal, 35 anni. Il profilo dell’ufficiale era in realtà già noto nelle stanze di piazzale Clodio, tanto che il suo è uno dei cinque nomi iscritti dallo scorso novembre nel registro degli indagati con l’accusa di aver concorso all’omicidio.
Anche sul suo ruolo nelle settimane che precedettero e seguirono la scomparsa del giovane italiano ci sono diversi punti fermi. Secondo le carte in mano agli inquirenti italiani, è stato proprio Magdy Abdel Aal a decidere di dotare il capo del sindacato degli ambulanti, Mohammed Abdallah, di una telecamera a bottone che registrò la conversazione dove quest’ultimo premeva su Giulio per utilizzare a fini personali un finanziamento da 10mila sterline destinato in realtà ad attività di ricerca. E fu sempre il maggiore ad arrestare nell’aprile 2016 Ahmed Abdallah, il presidente dell’Egyptian Commission for Rights and Freedom, l’organizzazione che rappresenta legalmente la famiglia Regeni in Egitto. L’identikit, insomma, è quello di un ufficiale giovane e di medio livello che si è mosso a più riprese nella vicenda.
I legami equivoci
A mettere in contatto Magdy Abdel Aal e altri uomini della Amn el-Dawla con Mohammed Abdallah sarebbe stato il colonnello della polizia investigativa cairota Kamal Athar, anche lui indagato dagli inquirenti italiani, che raccoglie la denuncia dell’ambulante nel novembre 2015. Cioè mentre Giulio sta già svolgendo sul campo il suo lavoro di ricerca sui sindacati indipendenti per conto dell’università di Cambridge. Probabilmente Abdallah – la cui avidità è stata confermata a Ilfattoquotidiano.it da chi lo aveva messo in contatto con il giovane italiano – credeva di poter intascare facilmente quella somma ed è rimasto deluso. Di certo è in seguito alla sua denuncia che, nel quartier generale dell’Amn el-Dawla, il generale Tareq Sabir e il colonello Osman Helmy, entrambi a loro volta finiti sul registro indagati di piazzale Clodio, hanno deciso di proseguire le indagini.
Ed ecco la prima incongruenza. Il sindacalista, come numerosi ambulanti e portinai del Cairo, era un informatore delle forze di sicurezza del Cairo, ma di scarso spessore. Resta difficile credere che gli egiziani abbiano deciso di proseguire le indagini in base alla segnalazione di un informatore di così basso livello. Regeni aveva un passaporto europeo, il passaporto di un paese con cui l’Egitto intrattiene circa 5 miliardi di interscambio commerciale e la cui compagnia petrolifera (Eni) ha pochi mesi prima scoperto uno dei più importanti giacimenti di gas. Seconda incongruenza: è credibile che il generale Sabir non si sia consultato con altri membri della direzione dell’Amn el-Dawla per un’indagine che coinvolgeva un profilo così sensibile?
I controlli su Giulio
Qualunque sia la verità, nel dicembre 2015 le indagini su Giulio entrano nel vivo. Prima un agente inviato dal colonnello Helmy (è lui il quinto e ultimo indagato di Pignatone e Colaiocco) ottiene dal portinaio del palazzo dove vive Giulio il suo passaporto. Poi gli uomini dell’Amn el-Dawla, proprio mentre Regeni è in Italia per le vacanze di Natale, bussano alla porta dell’appartamento di Giulio e cercano informazioni presso i suoi due coinquilini. Negli stessi giorni ad Abdallah viene chiesto di ottenere nuove informazioni sul finanziamento da 10mila sterline di cui aveva parlato con Giulio e di registrare la conversazione. Quelle immagini sono le ultime prima della sua sparizione (il video verrà poi mandato in onda dalla tv di Stato nel gennaio del 2017, poco prima del primo anniversario della sua sparizione). Tra l’8 e il 21 gennaio, il maggiore Sharif Magdy Abdel Aal chiama Abdallah per 13 volte e poi annuncia al sindacalista che il 25 gennaio, giorno del quinto anniversario della rivoluzione di Piazza Tahrir, Giulio verrà sorvegliato in maniera particolare. Tra il maggiore e il suo informatore, insomma, c’era un legame definito e solido, anche se in seguito Abdallah minimizzerà.
I buchi neri della sparizione
Il 25 gennaio 2016, giorno della sparizione, Regeni, anche a causa delle misure di massima sicurezza imposte dal regime per l’anniversario della rivoluzione, resta a casa sino a sera. Poco prima di cena esce per incontrare un suo amico italiano: hanno appuntamento in un ristorante popolare a poche centinaia di metri da piazza Tahrir per andare a una festa di compleanno. Alle 19.41 scrive alla sua fidanzata ucraina, Valeriia Vitynska, che sta per uscire. Giulio percorre la poche centinaia di metri che separano casa sua dalla fermata della metro di el-Bohoos. Il telefono si spegne alle 19.50, quando Giulio scende alla stazione della metro. Le immagini delle telecamere di sorveglianza, consegnate agli inquirenti italiani dopo un tira e molla diplomatico di oltre due anni, una volta visionate mostreranno dei buchi temporali. Si rivelano inutili, Regeni non appare mai. Il tracciamento telefonico fa pensare che il ricercatore abbia percorso quattro fermate e sia arrivato a quella di Mohammed Naguib. Lì sarebbe stato immediatamente preso in consegna da un gruppo di pubblici ufficiali tra cui Sherif Magdy Abdel Aal.
Secondo quanto riportato dalla nuova testimonianza agli atti, il maggiore dell’Amn el-Dawla ha affermato che Regeni è stato picchiato sin da subito. Nell’aprile del 2016, la Reuters aveva raccontato che il ricercatore era stato portato nella stazione di polizia di Azbakeya: la versione è credibile perché il commissariato si trova a poco più di 10 minuti in auto dalla metro Naguib.
Se fosse così, il depistaggio delle autorità egiziane sarebbe già iniziato con coscienza nelle prime ore, visto che la denuncia della scomparsa di Giulio era stata fatta dall’amico che lo attendeva la sera stessa e l’allora ambasciatore italiano al Cairo, Maurizio Massari, chiese con solerzia un incontro al ministro dell’Interno egiziano Magdi Abdel-Ghaffar. Il ministrò tergiversò per sei giorni prima di incontrare Massari, negando che Regeni fosse detenuto in una struttura appartenente al suo dicastero.
Fatti, non ipotesi, in grado di esplicitare non solo la commistione della polizia con l’Amn al-Dawla ma anche di sollevare un enorme dubbio: come è possibile che un cittadino straniero sia detenuto e torturato in una stazione di polizia su ordine dell’intelligence alle dipendenze del ministero degli Interni senza che il Ministro ne sia al corrente?
Il ritrovamento del cadavere
Anche sul periodo di detenzione e sulle torture subite da Regeni – testimoniate inequivocabilmente dalle condizioni in cui fu ritrovato il suo corpo – ci sono pochi fatti certi e molte ipotesi fumose. Secondo molti è possibile che l’attività informativa dell’ambasciatore Massari e il battage mediatico della campagna #whereisGiulio abbiano indotto le forze di sicurezza a ridurre al minimo gli spostamenti del prigioniero. Secondo una fonte egiziana ben informata ascoltata da Ilfattoquotidiano.it, tuttavia, la morte del ricercatore italiano sarebbe maturata nel contesto di un semplice interrogatorio – a questo erano finalizzati il fermo di Giulio e il suo trasporto in un luogo posto nelle immediate vicinanze – poi sfuggito di mano. Il prigioniero avrebbe dovuto essere trasferito successivamente in una sede dell’Amn el-Dawla, ma non poté arrivarci da vivo.
Giulio muore tra il 2 e il 3 febbraio perché, sostiene sempre la nostra fonte, qualcosa va storto. L’autopsia in effetti attribuisce la morte del ricercatore a un violento colpo al collo ed è logico pensare, prosegue il nostro interlocutore, che le percosse e le torture siano state talmente dure nei primi giorni che rilasciare Regeni in quelle condizioni avrebbe causato un caso diplomatico ben più grave di quello causato dalla sua morte. I vertici dell’Amn el-Dawla erano al corrente del trattamento che veniva riservato a Giulio? E perché decidono comunque di far ritrovare il suo cadavere invece di farlo semplicemente sparire?
Dalle dichiarazioni della fonte a Ilfattoquotidiano.it, la decisione sarebbe stata presa dagli uomini che tenevano in custodia Regeni, un gruppo composto da polizia e membri di medio e basso rango dell’Amn el-Dawla. Questi avrebbero comunicato la morte del ricercatore ai loro superiori, che a loro volta avrebbero risposto che il trasferimento del cadavere nella loro sede fosse a quel punto del tutto inutile in quanto non è possibile svolgere più un interrogatorio. Da qui la decisione dei carcerieri di Regeni di scaricare il corpo il 3 febbraio nella Cairo-Alexandria Road, non lontano dagli uffici dell’Amn el-Dawla. Accanto al cadavere fu rinvenuta una coperta militare: un maldestro tentativo di depistaggio che potrebbe rivelare l’intenzione degli uomini della sicurezza interna di attribuire la morte del ricercatore ai servizi segreti militari e non a quelli civili.
Nessuno è al sicuro
Quello che rimane poco chiaro, a oltre tre anni da quell’omicidio insensato, è il livello di coinvolgimento della direzione dell’Amn el-Dawla e dello stesso governo egiziano nel caso. Sino ad allora, come credeva lo stesso Giulio, il passaporto straniero garantiva un trattamento diverso da quello degli egiziani. Gli stranieri ritenuti una minaccia per la sicurezza nazionale venivano espulsi dal Paese e tranne per il caso di un insegnante francese morto in carcere nel 2013, le forze di sicurezza non adottavano per gli stranieri le stesse tattiche usate per la sparizione e la tortura di migliaia di egiziani. “Giulio è morto come un egiziano”, dissero degli egiziani alla madre Paola Defendi. Solo nelle stanze del potere del Cairo potranno dirci il perché.