A Milano giovedì 2 maggio, alla vigilia della Giornata mondiale per la libertà di stampa, il Festival dei diritti umani ha ospitato l’anteprima di un film straordinario, Child war reporters, della regista yemenita Khadija al-Salami. La prossima proiezione sarà l’11 maggio a Roma. I protagonisti sono due bambini che, con lo smartphone, girano per la capitale dello Yemen, Sana’a, per intervistare sopravvissuti e sfollati (ma anche pittori, rapper, scrittori per i quali l’arte è una forma di resistenza) tra le macerie e gli orrori di una guerra che va avanti da quattro anni.

Forse solo così si può raccontare cosa accade nel Paese. Chi ci ha provato in altro modo sta pagando un prezzo molto alto. Come 10 giornalisti, arrestati a metà del 2015 e da allora trattenuti dal gruppo armato huthi. Nove di loro, Abdelkhaleq Amran, Hisham Tarmoom, Tawfiq al-Mansouri, Hareth Hamid, Hasan Annab, Akram al-Walidi, Haytham al-Shihab, Hisham al-Yousefi ed Essam Balgheeth sono stati arrestati il 6 giugno all’hotel Qasr al-Ahlam di Sana’a, uno dei pochi luoghi della capitale ad avere ancora una connessione Internet e una fornitura regolare di elettricità. Il decimo, Salah al-Qaedi, è stato arrestato nella sua abitazione il 28 agosto.

Per lunghi periodi di tempo, durante i quasi quattro anni di detenzione, i 10 giornalisti sono risultati scomparsi, sono stati posti in isolamento, privati delle cure mediche, torturati. Alcuni di loro scrivevano su siti legati al partito al-Islah, avversario degli huthi. Le loro famiglie sono devastate. Le visite sono irregolari, brevi e sorvegliate da uomini armati. Lo scorso dicembre è stata formalizzata l’accusa di spionaggio a favore della coalizione militare diretta dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. Per il reato di spionaggio è prevista la pena di morte.

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