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Turchia, Erdogan: se non vinco si rivota. Ma non fingiamo di cascare dal pero

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan annulla le elezioni municipali inopinatamente perse il 31 marzo dal suo partito, l’Akp, nella sua Istanbul e ordina che si rifacciano: il sindaco della metropoli sul Bosforo, la sua roccaforte, non può essere espresso dall’opposizione. Si rivoti il 23 giugno e, questa volta, si voti bene.

La decisione di Erdogan, anzi – formalmente – della commissione elettorale suprema turca, suscita giustamente sdegno nel mondo libero. “Vincere contro l’Akp è illegale. Questo sistema è pura dittatura”, dice l’opposizione, marcando un gradiente rispetto all’autoritarismo di solito contestato al presidente turco con la tendenza – diffusa – a incrostarsi al potere che esercita senza interruzione da premier o da presidente dal 2003.

Sdegno. E un’eruzione di ipocrisia. Perché il vizietto di ordinare che si rivoti, o di cambiare ancora più brutalmente le carte in tavola, quando la gente vota male, almeno rispetto ai nostri canoni, non è mica un’invenzione di Erdogan. Tre esempi: 1991, elezioni in Algeria; 2006, elezioni in Palestina; 2012, elezioni in Egitto.

L’Algeria Le elezioni legislative del 1991 videro una forte ascesa delle formazioni islamiste, specie del Fis, il Fronte islamico di Salvezza: non piaceva alla Francia e in genere all’Occidente e neppure ai Paesi vicini. Di conseguenza, la consultazione elettorale fu annullata e l’11 gennaio 1992 ci fu un colpo di Stato. La dichiarazione dello stato di emergenza consentì al governo così insediatosi di sospendere le libertà costituzionalmente garantite: proteste soffocate nel sangue, sistematiche violazioni dei diritti umani, ricorso alla tortura diffuso. Dopo lo scioglimento del Fis, decretato ufficialmente il 4 marzo, le fazioni islamiste s’organizzarono nel Gruppo islamico armato. Ne derivò una guerra civile che fece decine di migliaia di vittime e che si concluse solo nel 2002.

La PalestinaLe elezioni legislative svoltesi nei territori controllati dall’Autorità Nazionale Palestinese il 25 gennaio 2006 erano attese da ben 10 anni: erano state più volte rinviate per via dell’occupazione israeliana, ma anche per il timore di una sconfitta del partito al potere, al-Fatah, cui si contrapponeva il movimento islamista Hamas. Vinse Hamas: non piacque ad al-Fatah e non piacque neppure a Israele, all’Occidente e agli Stati arabi filo-occidentali. Da allora, Cisgiordania, dove al-Fatah conta ancora, e Striscia di Gaza fanno vita da separati in casa e di elezioni non s’è più parlato.

L’Egitto – Le elezioni presidenziali, le prima dopo la Primavera egiziana, si svolsero tra il maggio e il giugno 2012: le vinse Mohamed Morsi, il candidato dei Fratelli Musulmani, contro i desideri dell’establishment egiziano, delle monarchie saudite e dell’Occidente. Risultato, poco più d’un anno dopo, il 3 luglio 2013, un colpo di Stato militare, guidato dal generale Abd al-Fattah al-Sisi rovesciava e imprigionava il presidente legittimo e instaurava una spietata repressione (di cui è parte la tragica fine di Giulio Regeni). Eppure, il generale golpista è oggi presidente riconosciuto dalla comunità internazionale; e l’Italia, nonostante la vicenda Regeni, se lo alliscia per fare affari.

Torniamo alla Turchia. Erdogan fa malissimo a fare quello che fa. Ma Erdogan s’ispira ad esempi del mondo musulmano avallati, quando non incoraggiati, dall’Occidente. E, allora, per piacere, evitiamo di fingere di cascare dal pero dell’innocenza: anche perché con questo Erdogan l’Europa dei 28, nel 2016, non si fece scrupoli a fare un accordo perché, in cambio di sei miliardi di euro, tenesse due milioni di rifugiati siriani sul suo territorio e non li lasciasse partire verso l’Unione, nell’Egeo o lungo l’autostrada dei Balcani: tremila euro a rifugiato.

‘Uomini forti’, autocrati, dittatori, golpisti, quando ci servono siamo peggio delle tre scimmiette.