Diritti

Ius soli, sanguinis o culturae? C’è un’altra via per gli italiani senza cittadinanza

di Valerio Pocar

Recentemente il gesto eroico di due ragazzini ha riaperto il dibattito pubblico sul problema della concessione, diremmo meglio del riconoscimento, della cittadinanza per i nati nel territorio italiano da genitori stranieri regolari. Il dibattito, però, si è chiuso quasi immediatamente, in omaggio al pactum sceleris di governo. L’argomento è, però, troppo importante per lasciarlo cadere, già che ne va la condizione giuridica di un milione di giovani.

Nella vicenda, che ha visto tentennare il principale oppositore al riconoscimento della cittadinanza, consapevole che è pur sempre controproducente non premiare un gesto comunque degno di apprezzamento, dobbiamo dire, senza nulla togliere ai due ragazzini, che v’è un errore nel manico. Agli eroi, invero, si danno medaglie e si dedicano piazze, non si premiano con la concessione di un diritto, che magari già loro spetta.

Anni fa su Criticaliberalepuntoit criticammo sia il criterio dello ius sanguinis sia quello dello ius soli, entrambi obsoleti e non rispondenti alle necessità di un mondo globalizzato, segnato nel prossimo futuro dalla ricollocazione territoriale di centinaia di milioni d’individui e proponemmo l’adozione, piuttosto, del criterio dello ius domicilii, riprendendo la nozione civilistica del domicilio come il luogo in cui la persona «ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi» (art. 43 cod. civ.). Intendevamo suggerire che si diventi cittadini del Paese dove di fatto si vive e s’intende vivere, pronti ad assumere i diritti e i doveri che dalla cittadinanza dipendono. Sarebbe una buona regola, crediamo, almeno all’interno dell’Unione Europea. Oggi come oggi, però, tra Brexit e sovranismi, è pura utopia.

Non è il caso di ribadire le buone ragioni che militano a favore del riconoscimento – ripeto, del riconoscimento, non della concessione – dello status di cittadino a centinaia di migliaia di giovani che hanno condiviso e condividono la vita dei loro coetanei, i quali, per puro caso, tale status possiedono, ma dai quali non differiscono. Chi, come noi, coltiva l’utopia che gli esseri umani siano cittadini del mondo e vedrebbe con favore la costruzione di società multiculturali non può non giudicare bizzarro che proprio coloro che reclamano l’integrazione come la condicio sine qua non per accogliere i migranti e come l’unica scelta politica possibile per rispondere ai flussi migratori rifiutino, al tempo stesso, il riconoscimento della cittadinanza ai giovani che, per caso, per loro scelta o non importa per quale altra ragione, si sono integrati.

Occorre rammentare che l’ipotesi in discussione non risponde affatto al criterio dello ius soli in senso proprio (quello per cui chi nasce, anche casualmente, in uno stato ne acquisisce automaticamente la cittadinanza), ma piuttosto al criterio che la fa dipendere dallo status activae civitatis, per cui la cittadinanza dipende dal fatto che il soggetto si trovi a comportarsi sul territorio dello Stato come un cittadino. L’ipotesi di cui si discute pone, per la concessione della cittadinanza, condizioni molto severe, come aver compiuto un ciclo quinquennale di studi nel nostro Paese o essere figlio di un genitore con permesso di soggiorno permanente. In concreto, si tratterebbe, nella stragrande maggioranza dei casi, di ragazzi che vivono in Italia da almeno un decina d’anni percependo sé stessi come appartenenti alla nostra collettività, della quale hanno assimilato lo stile di vita, la lingua, la cultura: tolti i tratti somatici non li sapresti distinguere dai loro coetanei cittadini italiani. Si tratta, insomma, più ancora che di riconoscere un diritto fondamentale umano (dopo anni di emigrazione il vincolo con la cittadinanza originaria svanisce, ma, se non se ne acquisisce un’altra, ci si trova di fatto nella condizione degli apolidi), di prendere atto che nel nostro Paese vivono centinaia di migliaia di ragazzi italiani che non sono cittadini italiani. Un paradosso.

Ma non è l’unico paradosso. I genitori di questi ragazzi continuerebbero, infatti, a non essere cittadini, con un ribaltamento del criterio dello ius sanguinis, per cui i figli sarebbero cittadini, ma i genitori no (…), che da anni vivono in questo Paese, qui lavorano, qui pagano le tasse, qui hanno deciso di restare a vivere accettando le nostre regole. (…)

Ma, nel criterio proposto, vi è un altro macroscopico vizio e un’altra grave ingiustizia. Si vorrebbe, per il riconoscimento della cittadinanza ai giovani italiani figli di stranieri, applicare il criterio dello ius culturae. Dovrebbero, in parole povere, essere riconosciuti cittadini i giovani stranieri che condividano la nostra cultura, la nostra lingua e i nostri valori. Si chiederebbe, in altre parole, a questi giovani di possedere un requisito che non è richiesto a nessun cittadino italiano. Ai cittadini italiani, infatti, si chiede di rispettare le leggi del nostro Paese e nulla più, non già di essere culturalmente italiani. Del resto, appare difficile chiedere, sia ai cittadini italiani sia ai giovani stranieri aspiranti cittadini, di aderire a qualcosa e condividere qualcosa che non esiste.(…)

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