I giuristi si allarmano per le macchine, per la robotica che sta invadendo le nostre vite e per le sperimentazioni di intelligenza artificiale. Taluni si scagliano contro questi mostri che renderebbero l’uomo un cyborg senza coscienza, distruggendo millenni di pensiero umanista e antropocentrico. Altri si dannano per comprendere le responsabilità per danni causati dalle macchine intelligenti: basti pensare a quali controversie potranno nascere quando, tra pochi anni, sarà di uso comune l’automobile senza guidatore umano o altre diavolerie tecnologiche che stanno rivoluzionando il mondo, come ad esempio la figura del chirurgo post-umano.
Tutto vero; si tratta di novità uniche e addirittura esorbitanti rispetto al nostro pensiero di “umani”. Ma, come si sa, “se la tecnica può qualcosa, quel qualcosa, prima o poi, verrà realizzato con quella tecnica”. Lo insegna la storia del pensiero occidentale, quantomeno dalla nascita del “patto tra uomo e Dio” per il quale la divinità e il sacro non debbono restare delle realtà distaccate, una in terra e l’altra nel Regno dei Cieli da adorare “col naso all’insù”. L’Occidente si è sviluppato rendendo il sacro uno strumento di riferimento per cercare di creare, in terra, il migliore sistema di governo, le migliori leggi, la migliore etica. Insomma, l’uomo della nostra civiltà ha costruito la propria “volontà di potenza” nel tentativo di farsi divino e in questo ha sempre utilizzato Dio come “motore” e come riferimento; tanto da far dire al filosofo Heidegger che “Dio è come un aeroplano”.
Per capire fino a dove si sta spingendo l’umanità in questa corsa verso l’oltre da sé è utile leggere il testo di Enrica Perucchietti dal titolo Cyberuomo, una guida al transumanesimo nell’era delle macchine e della tecno-scienza di oggi e domani. Nel dibattito su questo futuro prossimo e sulla sorte dell’umanità continua a essere latitante il mondo della giustizia applicata, cioè quello dei processi, che pure occupano un posto così rilevante nella narrazione del vivere quotidiano, tanto da essere uno dei prodotti più venduti nel mercato mediatico.
Il paradosso è che proprio la giustizia, per sua natura intrinseca, è una realtà virtuale millenaria e il diritto è l’algoritmo che regola questa intelligenza artificiale secolare. Non c’è da stupirsi di questo: il processo non può giungere al vero reale, ma solamente accontentarsi di una realtà parziale (quella processuale) fondata su prove raccolte in tempi anche molto successivi al fatto da accertare, ed è resa ancora più artificiale perché vincolata al rispetto di regole costruite a priori, che debbono essere rispettate a prescindere dal “sentimento” e dalla “natura umana” di chi le applica.
Gli antichi chiamavano questo sistema dura lex sed lex. Ebbene, oggi la giustizia applicata dovrebbe gioire di poter avere a disposizione sistemi nuovi e affidabili per aiutare chi si trova a utilizzare questi marchingegni giudiziari (le regole di diritto) attraverso programmi algoritmici e di intelligenza artificiale che non toglierebbero al magistrato o all’avvocato umano alcuno spazio operativo, ma consentirebbero di avere un supporto di logicità e aderenza al virtuale giuridico ben più affidabile di quello “umano troppo umano” (come avrebbe detto Nietzsche) del processo “all’antica”.
Paradossalmente invece, mentre la medicina e il medico hanno accettato di “farsi consigliare” dalla macchina e la vita nel suo complesso sta scoprendo che “il sacro” può essere aiutato a rivitalizzarsi con questi nuovi strumenti, l’operatore giudiziario “ha paura” che il mondo virtuale del processo possa essere contaminato da questi mezzi della tecnologia. Non è così ovunque: basti pensare che negli Stati Uniti l’intelligenza artificiale è già utilizzata per comprendere la portata probatoria della prova del Dna e un recente studio del New York Times ha rivelato che le liberazioni “su cauzione” sono risultate più aderenti alle regole di diritto quando supportate da sistemi algoritmici.
Attenzione però a una peculiarità delle nuove scoperte. Esistono infatti due forme di intelligenza artificiale: una “classica” in cui la macchina applica solamente ciò che le è stato “inculcato”, e una nuova e avveniristica (seppur già in auge) in cui la macchina impara “in corso d’opera” e dunque in ragione dell’interazione con l’operatore. La prima versione è auspicabile e potrebbe rappresentare la salvezza della giustizia di fronte a tanti pericoli del giudizio “umano”; la seconda rischierebbe di far ricadere il processo nella sua spirale “umana troppo umana”. Per quest’ultima versione la giustizia ha già a disposizione i magistrati e gli avvocati che tentano di rendere logica l’artificialità millenaria del processo.