Rientro oggi in Italia dopo una missione breve di un mese in Afghanistan. La quarta della mia vita; in totale ho vissuto e lavorato 11 mesi tra le montagne che danno inizio all’Indukush. Ci sono amici, con cui parlo e che mi spiegano. Per qualche settimana ho avuto una visuale privilegiata.
La guerra in Afghanistan ha cambiato tanti nomi, ma compie 40 anni senza soste ed il numero di morti annui è in costante aumento: ogni anno muoiono 10.000 soldati dell’esercito afghano, non sappiamo quanti tra i combattenti talebani. Nel 2018, secondo le Nazioni Unite, i morti civili sono stati 4,000, record assoluto degli ultimi 16 anni, ma questa stima è considerata al ribasso da alcune Ong che gestiscono ospedali nel Paese; inoltre per il primo anno i report Onu ammettono che vi siano stati più morti civili procurati dalle potenze militari straniere e esercito afghano che non dai talebani. Mentre l’inizio della primavera e lo scioglimento della neve segna il consueto aumento della intensità del conflitto, in Qatar si tengono negoziati di pace tra talebani ed americani. Desiderio di pace vera, analisi di un fallimento o disimpegno dovuto ad America First – slogan trumpiano ripreso dai populisti italiani che prevede la chiusura degli interventi di politica estera non economicamente convenienti per gli americani – non è dato saperlo.
Secondo quanto riportato da Zalmay Khalilzad, l’inviato della Casa Bianca, “i talebani si impegnerebbero ad impedire che l’Afghanistan diventi una piattaforma per gruppi terroristici internazionali come l’Isis o Al Qaeda” ed in cambio gli americani ritirerebbero le truppe dal Paese. Non è chiaro quanto questa posizione sia soddisfacente per gli interessi americani; certamente non è rassicurante per i cittadini di questo martoriato Paese, fino a che non sarà affrontata la questione del rapporto tra governo afghano e Taliban in seguito all’eventuale ritiro del contingente statunitense. Da qualche mese, l’esercito Usa ha smesso di aggiornare la mappa che indicava quali distretti fossero in mano al governo e quanti ai talebani, unico documento non-classificato che dava conto dei “progressi” delle operazioni militari. Fino all’estate 2018 Washington aveva sempre rifiutato di intrattenere colloqui ufficiali con i Talebani: il cambio di strategia è una vittoria talib, ora riconosciuti ufficialmente come interlocutori. L’aspetto positivo è costituito dal rafforzamento della componente dei afghani talebani – a dispetto dei talebani non afghani – che vuole governare il Paese: gestendo infrastrutture come scuole ed ospedali che già amministra nei distretti controllati, coprendo il 50% del territorio nazionale. La marginalizzazione dei talebani non afghani costituirebbe un passo avanti nel processo di pacificazione.
Desiderio di pace vera, analisi di un fallimento o disimpegno dovuto ad America first?
Nel frattempo gli Stati Uniti proseguono nei colloqui separati con il governo afghano, resi sempre più difficili dal fatto che nel 2019 ci saranno anche le elezioni politiche nel Paese. La tattica partitica mostra il punto di massimo distacco rispetto alle richieste ed alle necessità delle popolazione: i vari candidati alla Presidenza temono che qualcuno si attesti meriti personali rispetto ai progressi verso la pace. Se maggioranza ed opposizione, entrambe frammentate al loro interno non riusciranno ad impedire che gli sforzi di pace diventino una disputa di partito, la partitocrazia afghana si prenderà una terribile responsabilità in questo preciso momento storico in cui esiste una finestra di opportunità reale per la pace. E ciò sta già avvenendo: il 20 aprile, infatti, Usa e governo del Qatar avevano convocato un negoziato di pace interafghano. Zabihullah Mujahid, il principale portavoce dei talebani aveva garantito una autorevole presenza femminile, e non le sole mogli dei leader, fino a che, all’ultimo momento, la delegazione afghana non ne ha chiesto un rinvio. Ufficialmente perché Qatar non ha gradito la numerosità degli inviati del governo, circa 250 persone. Il vice-presidente Abdullah Abdullah ha definito l’approccio del governo “figlio di una cattiva gestione preparatoria”. Ashraf Ghani e lo stesso Abdullah sono stati i principali candidati alle passate elezioni politiche, ora leader del governo di coalizione.
Il giorno dopo il rinvio, il Ministero della Comunicazione, Cultura ed Informazione a Kabul è stato oggetto dell’attentato kamikaze con 7 morti e molti più feriti, ponendo fine a diverse settimane di relativa calma in capitale. I talebani hanno prontamente negato ogni responsabilità, mentre non vi è stato alcun commento da parte della filiale regionale dell’Isis, già responsabile di numerosi attacchi sanguinosi nell’area.
Se America First fosse, in fin dei conti, un’opportunità per l’Afghanistan? Una parte della popolazione più colta ed istruita la considera tale. Due anni fa, all’epoca del mio precedente soggiorno nel Paese, gli stessi amici afgani con cui ho parlato in questi giorni erano avvolti da una cappa di depressione quarantennale. I medici e le infermiere con cui lavoro sono tutti nati e vissuti senza un giorno di pace sulla loro testa, ad eccezione di un memorabile cessate il fuoco di tre giorni durante la festa di Eid Al-Fitr, la fine del Ramadan, del giugno 2018. Accordo rispettato da tutte le parti. Di quelle poche ore di pace rimangono le fotografie di soldati nemici che entrano in città senza le armi; alcuni persino immortalati a mangiare dei gelati insieme. È stato difficile per i comandanti richiamare alla guerra i rispettivi uomini al termine della tregua. In quei giorni cominciò, e dura ancora dopo oltre dieci mesi, una marcia di pace nonviolenta di cittadini afghani che prosegue in tutte le provincie del Paese. Alcuni afghani coraggiosi manifestano per le strade chiedendo la pace, nonostante il rischio di attentati terroristici sia notevole ogni volta che si è in presenza di assembramenti.
Questa volta non tutti rispondono alle mie domande con scetticismo, ma con la costante gentilezza di queste persone. Chiacchiere e pezzi di carta, vedremo, ma gli interessi di chi dentro e fuori il Paese vuole la guerra sono difficili da rimuovere, in tutte le fazioni. Alcuni convengono che America First possa essere una occasione, pur consapevoli dei rischi ulteriori che una fuoriuscita frettolosa dalla regione potrebbe comportare.
I dottori e le infermiere con cui lavoro sono tutti nati e vissuti senza un giorno di pace sulla loro testa
La speranza si nutre anche della linea politica russa: a febbraio 2019 si è tenuto per la prima volta all’Hotel Presidenziale del Cremlino un incontro ufficiale tra una delegazione afghana e una talebana: si è pranzato, pregato e discusso insieme. Pare che circolino delle bozze di accordo, se non tra talebani e governo, almeno tra talebani ed Alleanza del Nord (che riunisce i combattenti di etnia tagika, come il comandante Massoud), nemici storici. Il 24 aprile i russi hanno annunciato l’organizzazione di un incontro trilaterale con Usa e Cina in cui si discuterà della pacificazione afghana. Anche questa collaborazione (o quantomeno l’intento di non boicottarsi reciprocamente) tra America e Russia, se confermata dai fatti, rappresenterebbe una novità notevolissima. A rafforzare ulteriormente questa straordinaria congettura astrale, il 03 aprile scorso, Jens Stoltenberg, il Segretario Generale della Nato, ha pronunciato uno storico discorso presso il Congresso americano riunito in seduta congiunta, in cui ha dichiarato: “Decideremo sulla nostra futura presenza insieme. E quando verrà il momento, partiremo insieme. La Nato sostiene pienamente il processo di pace: esso deve aprire la strada alla riconciliazione afghana. E affinché la pace sia sostenibile, deve basarsi sul progresso sociale ed economico, portare educazione e diritti umani a donne e ragazze. I loro diritti devono essere preservati”.
Il Pakistan è messo sotto pressione dalla amministrazione americana e da America first inoltre l’India potrebbe remare contro un protagonismo pakistano nel processo di pace; l’Iran, importante protagonista nella geopolitica regionale, sarà imponente ostacolo alla pace fino a che non miglioreranno le relazioni con gli Stati Uniti, ma da questo punto di vista non arriva alcun segnale incoraggiante.
Nel frattempo, il governo Ghani ha convocato il 29 aprile la Loya Jirga, storica assemblea non elettiva che include leader tribali, rappresentanti di tutte le provincie, figure politiche, militari e religiose, membri della famiglia reale e funzionari del governo che rappresentano tutte le etnie del Paese. Tutti tranne i talebani che invece non ne fanno parte. I 3.200 rappresentanti della Jirga hanno ricevuto un gettone di presenza di 20,000 afghani al giorno, circa 230 euro. Le donne sono state aspramente criticate da alcuni delegati sia per la loro presenza che per gli argomenti sollevati, a riprova che gender equality non solo sarà tema centrale nel processo di pace, ma anche che i nemici dei diritti delle donne sono presenti in entrambi gli schieramenti, ed in generale in larga parte della società civile afghana. I rappresentanti talebani non fanno parte della Loya Jirga; i 3,200 delegati hanno ricevuto un bonus presenza di 20,000 afghani al giorno, circa 230 euro. Obiettivo di questa convocazione è di scegliere una linea di condotta che permetta al presidente Ghani di parlare a nome della società afghana recuperando la sua centralità in un eventuale negoziato di pace interafghano. Alcuni importanti candidati alla presidenza, tra cui Abdhullah Abdhullah, hanno boicottato la Jirga considerandola strumento di campagna elettorale del presidente Ghani.
E l’Europa? L’8 aprile scorso è stata approvata una risoluzione da parte del Consiglio dell’Unione Europea in cui si auspica urgentemente l’inizio di un’interlocuzione tra il governo afghano e talebani; l’Ue si rende disponibile a farsi garante del processo di pace, a collaborare in favore della reintegrazione dei combattenti e delle loro famiglie e a promuovere il commercio nella regione. Si chiede il coinvolgimento del governo afghano nel processo di pace, e che il rispetto dei diritti umani, delle donne e delle minoranze etniche siano inclusi nel negoziato. Il Consiglio chiede inoltre che donne di entrambe le fazioni partecipino alla negoziazione. Il presidente Ghani ha commentato positivamente la risoluzione europea, mentre si è mostrato molto cauto sull’impostazione scelta dalla Casa Bianca, temendo di essere tagliato fuori dal cuore della trattativa proprio alle porte delle elezioni. L’Ue è potente finanziatrice ed osservatrice politica ed umanitaria della regione, ma sconta la debolezza strutturale data dalla mancanza di un esercito comune.
Il Consiglio dell’Ue chiede che le donne talebane e del governo afghano siano presenti ai negoziati di pace
E l’Italia? Secondo il rapporto MIL€X dell’Osservatorio sulle spese militari, in diciassette anni l’Italia ha stanziato per la missione in Afghanistan un totale di 7,9 miliardi di euro (1,34 milioni di euro al giorno). Sono impegnati “piedi a terra” 900 soldati, nel 2012 erano 4.200, rappresentando il terzo contingente militare nel Paese. È anche in ragione del cospicuo contributo economico e militare che il silenzio del governo pare assordante: il nostro Paese non sta giocando alcun ruolo per facilitare ed orientare il buon andamento dei negoziati di pace. Se gli Stati Uniti ritirassero il proprio esercito, dovremmo farlo anche noi, anche solo per gli evidenti rischi alla sicurezza dei nostri soldati. Lo scorso 29 gennaio fonti della Difesa hanno fatto trapelare che «il ministro Trenta ha dato disposizioni al Comando operativo di Vertice interforze di valutare l’avvio di una pianificazione per il ritiro del contingente italiano in Afghanistan […] in dodici mesi». Siamo completamente a ruota delle decisioni altrui: abbiamo una presenza militare molto importante nel Paese, ma rimaniamo privi di una qualsivoglia analisi ed ambizione nella politica estera. Non sappiamo se il governo italiano ritenga migliorate le condizioni del Paese e condivida, quindi, la posizione espressa dall’attuale amministrazione americana; se ritenga positivo e sufficiente il dialogo tra gli americani e le forze talebane; se il nostro governo intenda giocare attivamente un ruolo per la promozione del dialogo con i talebani; se sia a conoscenza dell’esistenza di un’ipotesi federalista promossa da intellettuali ed attivisti afgani quale condizione per la facilitazione dell’incontro tra governo afgano e talebani.
Queste domande sono contenute all’interno di un’interpellanza che insieme all’onorevole Riccardo Magi ho presentato lo scorso febbraio. Non abbiamo ancora ricevuto risposta, ma nel frattempo l’Esercito Italiano rimane impegnato in una missione costosa e pericolosa sotto la gestione di un governo che non sa per quali ragioni si trovi nel Paese, incapace di proporre soluzioni nonostante il momento propizio, accodato supinamente alle decisioni di Stati di cui non sa neppure se e quanto voglia essere alleato. Eccola in tutto il suo splendore, l’inconsistenza politica della partitocrazia nostrana.