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Dazi, un accordo Usa-Cina non ci sarà mai. E Trump sta tirando troppo la corda

La politica protezionista americana condotta a colpi di tweet è surreale al punto che ormai nessuno sa bene cosa ci sia dietro, insomma un’analisi corretta della strategia trumpista di lungo termine è impossibile. Ma prevedere le conseguenze di una guerra tariffaria tra due superpotenze economiche, quello sì che è possibile, e per farlo bisogna fare un piccolo passo indietro.

La rivoluzione politica di Donald Trump poggia sul ritorno di un’America onnipotente, una superpotenza a tutti gli effetti. Naturalmente ci sono degli ostacoli, primo fra tutti la Cina, economia matura ed emergente allo stesso tempo, che lavora alacremente alla costruzione di una macchina militare tanto efficiente quanto quella americana. La Cina è un rivale potente anche a livello demografico: un miliardo e 400 milioni di cinesi contro 300 milioni di americani.

L’obiettivo di Trump è chiaramente impedire alla Cina di compiere il sorpasso, di diventare più potente degli Stati Uniti e se ciò avvenisse l’America non potrebbe mai essere “di nuovo grande”. Ecco spiegato perché il presidente vuole che Pechino smantelli la politica del made in China 2025: politica che mira a chiudere il divario con l’occidente in 10 settori, tra cui quello dell’acciaio, entro il 2025 e a dominare l’industria dell’intelligenza artificiale entro il 2030. Questo non è semplicemente un obiettivo economico: è una strategia di lungo periodo diretta a garantire la sicurezza nazionale cinese, è un programma per il futuro della nazione il cui artefice è il presidente Xi Jinping, la meta finale è l’emergere della Cina come potenza globale.

E’ chiaro dunque che un accordo solido e duraturo tra Washington e Pechino non ci sarà mai, dal momento che nessuno dei due rinuncerà al programma di supremazia mondiale. La guerra dei dazi è l’inizio di un conflitto di lungo periodo; il pericolo è che tale conflitto abbia conseguenze negative per l’economia mondiale a causa della globalizzazione. E vediamo perché.

Fino ad ora le tappe salienti della guerra dei dazi sono state tutte dirette verso la Cina. Nel luglio del 2018 il presidente ha imposto per la prima volta una tariffa punitiva del 25% su 50 miliardi di dollari di esportazioni industriali cinesi. I nuovi dazi sono stati seguiti a settembre dall’imposizione di una tariffa del 10% su una gamma molto più ampia di prodotti per un valore di circa 200 miliardi di dollari l’anno, che questa settimana è stata portata al 25%. Questa settimana, dopo la rottura dei negoziati commerciali con la Cina, Trump ha affermato che gli Stati Uniti stanno studiando la procedura per applicare un tasso del 25% su tutte le restanti importazioni cinesi, per un valore di 325 miliardi di dollari.

Le sanzioni al momento sono popolari nel mondo degli affari e nell’industria americana pesante, anche e soprattutto tra gli operai che hanno votato Trump; non lo sono tra gli agricoltori che hanno visto le importazioni cinesi di derrate alimentari e materie prime diminuire in risposta ai nuovi dazi. Per ora anche piazza Affari sembra poco preoccupata della guerra dei dazi perché è convinta che si troverà un accordo. Ma questa tranquillità si potrebbe trasformare in panico nel momento in cui diverrà evidente che il commercio internazionale si sta contraendo a causa delle politiche protezioniste americane e cinesi. A quel punto, potrebbe succedere l’impensabile, un crollo di borsa epocale. Non dimentichiamo che il 50% del valore degli indici di Wall Street è rappresentato da imprese ad alta tecnologia: una guerra dei dazi ne farebbe aumentare i costi e ridurrebbe sostanzialmente le vendite a livello globale.

Trump sta giocando con l’economia globalizzata convinto di avere in mano un giocattolo made in Usa. Il presidente è fuori tempo e forse anche scollegato con la realtà; ha però avuto fortuna, è incappato in un ciclo economico positivo e quindi ancora raccoglie consensi. Ma nei prossimi 12 mesi la guerra dei dazi potrebbe trasformare la crescita economica americana in una recessione simile a quella degli anni Ottanta. E se questa inversione avvenisse prima delle elezioni presidenziali, Trump potrebbe anche perderle.