Esportazioni e crescita della domanda interna stanno favorendo lo sviluppo di una nuova tigre asiatica: il Vietnam. Che nei primi mesi di quest’anno ha fatto registrare afflussi record di investimenti esteri, alla ricerca di nuovi approdi logistici, stabilità economica e manodopera a basso costo. Un’opportunità per le aziende ma un problema per la popolazione. E il recente incremento del 5,3% del salario minimo non ha migliorato molto la situazione. Osservato speciale è il settore tessile e dell’abbigliamento, che grazie agli accordi di libero commercio vede competere e spesso vincere commercialmente i grandi marchi internazionali che producono in subfornitura nel Paese, impedendo una crescita organica del tessuto imprenditoriale locale. Tanti nodi ancora da sciogliere per il governo vietnamita, che punta a una svolta digitale che metterà a rischio quasi il 40% degli attuali posti di lavoro. Un’evoluzione che riguarda anche la nutrita e crescente presenza italiana ad Hanoi.

Dagli anni 2000, il Vietnam ha registrato una crescita reale del Pil di oltre il 5% all’anno, superando il 6% dal 2014 in poi. Lo scorso anno il Paese ha chiuso con un incremento del Pil del 7,1%, mentre per quest’anno e il prossimo gli analisti della Asian Development Bank vedono una leggera flessione, al 6,8% per il 2019 e al 6,7% per il 2020. Il primo trimestre si è già chiuso con un incremento del 6,8%, lo scorso anno lo stesso periodo aveva fatto registrare una crescita del 7,3 per cento. Leggere variazioni lungo un trend di crescita costante. Esportazioni e incremento della domanda interna sono i fattori trainanti di questo sviluppo, che vede una crescita sostenuta degli investimenti esteri, una costante negli ultimi anni, ma soprattutto del 2019. Nei primi 4 mesi di quest’anno il Vietnam ha ricevuto dall’estero investimenti per 14,59 miliardi di dollari, in crescita dell’81% rispetto allo stesso periodo del 2018 secondo la Foreign investment agency, che riporta al Ministero della pianificazione e degli investimenti. Il settore manufatturiero ha attratto oltre 10 miliardi di dollari, il 72% del totale, mentre seguono a grande distanza l’immobiliare con 1,1 miliardi e il retail con 740 milioni di dollari. A dirigersi oggi in Vietnam sono aziende di 80 Paesi diversi, ma per gran parte vicini asiatici come Hong Kong, con 4,7 miliardi di dollari, un terzo del totale, Corea del Sud con 1,98 miliardi e Singapore con 1,87 miliardi di dollari.

“Sviluppare il mercato dei servizi logistici, creare eque opportunità per le imprese di tutti settori e attrarre investimenti domestici ed esteri”, si legge nell’action plan approvato nel 2017 dal governo vietnamita. Secondo le stime del Ministero dell’industria e del commercio, in Vietnam sono oltre 1.300 le aziende della logistica, per un giro d’affari di 50 miliardi di dollari l’anno e che vale oltre il 20% del Pil. La geografia aiuta: oltre tremila chilometri di costa e l’invidiabile posizione al centro del sudest asiatico ne fanno un partner ideale per le esportazioni, favorendo la strategia “China plus one”. Ovvero tutte le aziende che negli anni scorsi si sono dirette per delocalizzare dalle parti di Pechino, a causa della crescita del costo del lavoro cinese hanno iniziato a diversificare nella regione, cercando un nuovo Paese per i propri affari da affiancare al Dragone. E molti hanno trovato nel Vietnam il nuovo partner ideale, grazie anche ai salari che, nonostante il recente aumento del livello minimo, restano meno della metà di quelli cinesi. All’inizio di quest’anno il governo ha incrementato il salario minimo del 5,3%, e oggi, secondo le diverse regioni, sono compresi tra i 125 e 180 dollari al mese. Un’opportunità per gli investitori, un problema per la popolazione.

Una recente analisi della Fair Labor Association, intitolata “Toward Fair Compensation in Vietnam: Insights on Reaching a Living Wage”, durata tre anni, e che ha coinvolto 13.000 lavoratori di 38 aziende dell’abbigliamento, ha evidenziato come ci sia ancora molta strada da fare per raggiungere condizioni di vita in linea con gli standard internazionali. Nelle aziende affiliate all’associazione la maggior parte dei lavoratori guadagna il doppio del salario minimo, non ancora sufficiente per rispondere ai bisogni primari delle persone. “Un lavoratore avrebbe bisogno di un incremento di almeno il 25% per raggiungere la soglia che lo farebbe uscire dalla povertà assoluta, secondo i benchmark della Global Living Wage Coalition”, scrive Fair Labor. “Con l’incremento del 5,3% di quest’anno, il salario minimo resta per meno della metà (48,2%) al di sotto del benchmark della Global Living Coalition”.

L’industria tessile ha esportato lo scorso anno prodotti per 36 miliardi di dollari, in crescita del 16 per cento. Dopo la Cina e il Bangladesh, il Vietnam rappresenta il terzo esportatore di tessile e abbigliamento nel mondo. Oltre 2,5 milioni di lavoratori sono impiegati in 6.000 aziende, che per la maggior parte non hanno un proprio brand. E il mercato interno, grazie anche agli accordi di libero commercio, è dominato dalle insegne straniere. Zara, H&M, Topshop, Old Navy, che producono nel Paese attraverso fornitori locali, sono in diretta concorrenza nei negozi con gli stessi produttori vietnamiti. E vengono preferiti dai consumatori grazie alla diversa forza del brand. Secondo Vu Duc Giang, presidente della Vietnam Textile and Apparel Association, l’industria locale non è riuscita a mantenere i ritmi dei trend del fashion globale. E suggerisce alcune strade, tra cui l’addestramento delle risorse, la creazione di reti di distribuzione tradizionali e online, così come di distretti industriali e lo sviluppo della tecnologia.

La tecnologia al momento non è uno dei punti di forza dell’industria vietnamita, ma il governo punta a una trasformazione dell’economia in senso digitale. Vu Dai Thang, viceministro della pianificazione, ha recentemente indicato in 9 miliardi l’apporto dell’economia digitale, puntando a raggiungere 30 miliardi nel 2025. Citando stime del centro di ricerca australiano Data 61, Vu Dai Thang ha anche aggiunto che nei prossimi 20 anni la digitalizzazione potrebbe valere 162 miliardi di dollari, sottolineando tuttavia che il 38% degli attuali posti di lavoro potrebbe scomparire.

Anche l’Italia è presente in Vietnam, sia dal punto di vista commerciale che produttivo. Le relazioni tra i due Paesi sono positive, come testimoniato anche dall’ultimo evento dello scorso novembre, organizzato in collaborazione con l’Ambasciata italiana ad Hanoi, che ha coronato un partenariato quinquennale avviato nel 2013. L’appuntamento, dal titolo Piazza Italia, ha portato gli stand tricolori nella cittadella imperiale di Thang Long e ha visto le sponsorizzazioni di gruppi da tempo attivi nel Paese, come Piaggio, Ariston, Leonardo e Bedeschi. “Punto di forza del Paese è di essere in costante crescita e in pieno sviluppo, dove il valore del manifatturiero è assoluto rispetto alle altre realtà dell’area. Non solo: il Paese è punto di riferimento per le aziende del settore meccanico e di quello tessile, anche per quelle che hanno delocalizzato la produzione”, ha dichiarato lo scorso anno la Confartigianato di Vicenza, in occasione dell’apertura di un proprio ufficio ad Hanoi.

foto dal video promozionale del ministero per la Pianificazione e gli investimenti

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

“Reddito di base e 15 ore di lavoro alla settimana”, l’utopia dello storico che ha detto ai ricchi di Davos di pagare le tasse

next
Articolo Successivo

EssilorLuxottica, accordo tra Del Vecchio e i soci francesi sulla governance: il titolo guadagna 3,31% in Borsa

next