Avaaz raccoglie prove, formula l’accusa, presenta la sua richiesta e Facebook valuta la richiesta, esamina le prove e condanna al sempiterno oblio 23 pagine, con 2 milioni e mezzo di follower e 2,44 milioni di interazioni solo negli ultimi tre mesi. L’accusa è quella di inquinamento delle elezioni politiche alle porte. Il Tribunale, teatro del processo surreale, è il nuovo Tribunale della verità al quale abbiamo spalancato le porte quasi senza accorgersene.

I più esultano. Giustizia è fatta. I falsari di news anti-democratiche sono stati smascherati e ridotti al silenzio. L’asse società civile-gigante americano dei social network ha prodotto i suoi frutti. La democrazia ha vinto. E la tentazione di sfogliare alcune delle prove che Avaaz ha prima trasmesso a Facebook e poi reso pubbliche è quella di credere che sia davvero così, che ci si debba unire al coro di soddisfazione e di giubilo democratico: un video di estrazione cinematografica ritraente migranti intenti a demolire un’automobile contrabbandato per storia vera e Roberto Saviano costretto a smentire di aver mai detto che avrebbe preferito i migranti anziché i terremotati italiani, quasi che salvare i primi abbia per presupposto abbandonare al loro destino i secondi.

Ma sbaglieremmo. È vero esattamente il contrario. È de profundis della democrazia quello che dovremmo intonare davanti a notizie come questa. Stiamo perdendo tutti molto di più di quanto erroneamente crediamo di guadagnare.

Avaaz è un’organizzazione non governativa, espressione preziosa e nobile di una società civile che si organizza e combatte per un futuro migliore e più democratico; ma non è un pubblico ministero, non rappresenta lo Stato, non è un soggetto al quale la legge attribuisce il potere di raccogliere prove, istruire processi, formulare richieste di condanna. Facebook è una corporation americana, il più grande giardino privato della storia dell’umanità, uno straordinario amplificatore – quando usato correttamente – della libertà di parola; ma non è un giudice, non applica la legge, né è incaricato di pronunciare e eseguire sentenze da qualsivoglia legge dello Stato.

E, soprattutto, il Tribunale della verità non esiste nella nostra democrazia ed è bene che non esista mai, perché quando ne ammettessimo l’esistenza staremmo condannando a morte certa la democrazia stessa.

Mi rendo conto che è difficile – e probabilmente impopolare – frenare l’entusiasmo davanti a quella che sembra una straordinaria operazione verità a tutela di tutti noi, perché le elezioni politiche, somma espressione democratica, siano poste al riparo da bufale, disinformazione e falsità. E mi rendo conto che Facebook sta facendo quello che i governi di mezzo mondo continuano a domandargli di fare, minacciando sanzioni e conseguenze sempre più pesanti per l’ipotesi di inattività.

Ma dobbiamo dircelo comunque, farlo con franchezza, proprio ora che è più difficile perché più preziosa ed efficiente sembra l’azione di Avaaz e Facebook: questa è la strada sbagliata, questa è una strada che porta dritta alla giustizia privata, una strada che porta ai tribunali privati della verità, una strada che porta lontano dalla democrazia.

Il processo che si è appena celebrato non ha nessuna delle garanzie attorno alle quali abbiamo costruito le nostre democrazie, non è un giusto processo, non è un processo terzo, non è un processo celebrato in nome della legge e, soprattutto, non è un processo celebrato dalle Autorità competenti. E l’alibi del digitale, dell’online, di Internet, della quantità industriale di informazione che si produce ogni momento non basta per derogare ai diritti fondamentali dello Stato democratico. Perché se oggi lo facciamo per la disinformazione, domani – quando un numero enormemente maggiore di condotte della vita umana dipenderà di fatto da piattaforme come Facebook – non sapremo resistere alla tentazione di farlo anche per l’educazione, la salute pubblica, la pubblica amministrazione, il commercio e ogni altro settore della vita di uno Stato.

Perché è evidente che la giustizia privata amministrata dai gestori delle grandi piattaforme online – comprimendo o addirittura eliminando ogni garanzia del giusto processo – è più veloce di quella pubblica, ma questo non significa che possa chiamarsi giustizia, né che sia democraticamente sostenibile.

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