Il sostituto procuratore della Dna ha parlato con gli studenti intervenuti alla Camera al convegno in memoria del magistrato ucciso il 23 maggio 1992: "La sua storia di uomo e professionista fu costeggiata da ripetute delusioni e sconfitte. C'è una verità che va completata. I processi celebrati sono stati importanti ed hanno ottenuto risultati non scontati: molti uomini di mafia hanno partecipato a quella strage ma emerge la possibilità - dagli atti e da quanto detto e scritto - che altri estranei abbiano partecipato a ideare, organizzare e perfino eseguire l’attentato"
Delegittimato in vita. E poi ucciso da Cosa nostra. Ma non solo. È quello che è successo a Giovanni Falcone. A ricordare le difficoltà incontrate dal magistrato ucciso dalla mafia, mentre era ancora vivo, è stato il pm Antonino Di Matteo. “Ci sono verità che vanno ricordate: la prima è che Giovanni Falcone in vita venne continuamente delegittimato, calunniato, anche da chi oggi finge senza pudore di onorarne la memoria. La sua storia di uomo e professionista fu costeggiata da ripetute delusioni e sconfitte. C’è una verità che va completata. I processi celebrati sono stati importanti ed hanno ottenuto risultati non scontati: molti uomini di mafia hanno partecipato a quella strage ma emerge la possibilità – dagli atti e da quanto detto e scritto – che altri estranei a Cosa nostra abbiano partecipato a ideare, organizzare e perfino eseguire l’attentato a Capaci“, ha detto il sostituto procuratore parlando agli studenti intervenuti alla Camera al convegno in memoria dello stesso Falcone. “Il contrasto alle mafie è lotta di liberazione a un cancro che sta corrodendo la nostra democrazia che colpisce fino a soffocarli i diritti e le libertà. Questa lotta dovrebbe diventare obiettivo di ogni parte politica, di ogni governo, di ogni istituzione”, ha aggiunto Di Matteo. Il dibattito è organizzato dalla deputata del M5s Maria Edera Spadoni e dall’associazione Themis & Metis.
Il pm è stato titolare dell’inchiesta sulla cosiddetta Trattativa e pezzi dello Stato che nell’aprile 2018 ha portato a pesanti condanne per mafiosi, alti ufficiali dei carabinieri e uomini politici. Nelle motivazioni della sentenza sono ricostruiti vari passaggi degli ultimi trent’anni in cui tra esponenti dei clan e uomini delle Istituzioni venne siglato un patto: “Tanti delitti sono stati realizzati in una perversa logica di convergenza tra interessi mafiosi e interessi esterni alla mafia militare – ha ripercorso Di Matteo – La mafia ha raggiunto la sua proverbiale potenza grazie alla capacità di coltivare rapporti con la politica. La mafia è da sempre una questione nazionale: pensate alle risultanze del processo Andreotti, 22 volte ministro e 7 volte presidente del consiglio, o alla sentenza che ha definitivamente condannato Dell’Utri come intermediario di un patto realizzato nel 1974 con Silvio Berlusconi e rispettato per anni da entrambi contraenti. Pensate al processo verso l’ex presidente della regione siciliana Totò Cuffaro. Il processo sulla Trattativa attesta che mentre in Italia venivano compite 7 stragi tra il ’92 e il ’93, c’erano parti delle istituzioni che andavano a chiedere a Riina cosa volesse in cambio per una cessazione dell’attacco allo stato. Questo c’è scritto nelle sentenze. I mafiosi hanno chiaro che è fondamentale per loro istaurare rapporti col potere, sanno che senza sarebbero già stati debellati. Noi non abbiamo ancora completamente capito che per vincere la guerra bisogna fare il possibile in via preventiva e repressiva per recidere quei rapporti. Sono convinto – ha concluso Di Matteo – che la politica si deve riappropriare di un ruolo di primo piano nella lotta alla mafia da esercitare ogni giorno con la denuncia la capacità di analisi, di studio e di inchiesta, evitando di attendere la chiusura delle vicende giudiziarie”.
Il sostituto procuratore, attualmente in servizio alla Direzione nazionale antimafia, ha poi commentato i rapporti tra toghe e politica: “La guerra tra politica e magistratura non corrisponde alla realtà dei fatti: c’è stata una offensiva unilaterale di una parte consistente della politica, anche trasversale ai vari schieramenti, nei confronti di una parte della magistratura, quella che continua a pensare che il controllo della legalità deve essere a 360 gradi, che i cittadini devono essere uguali davanti alla legge, che l’azione giudiziaria deve essere guidata da criteri di doverosità giuridica. Quella parte politica che ha scatenato l’offensiva mira a una magistratura collaterale e servente, rispetto al potere esecutivo. Questi progetti erano già contenuti nel programma della Loggia P2 che a questo obiettivo mirano progetti di riforma che ciclicamente e anche nelle ultime settimane vengono riproposti come necessari: mi riferisco alla separazione delle carriere e ai progetti che mirano a temperare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale”. Il convegno era organizzato dalla deputata del M5s Maria