Cultura

Il mondo virtuale? Esiste da sempre (e non ce n’eravamo mai accorti)

Dislivello prometeico (cioè volontà di potenza smisurata e illimitata) transumanesimo, tecno-utopia e macchine che diventano più intelligenti dell’uomo. Queste sono le parole chiave che hanno fatto da cornice alla presentazione del testo Cyberuomo di Enrica Perucchietti, presentato domenica 12 maggio al Salone del Libro di Torino. Un saggio tanto affascinante quanto capace di ingenerare paura, lasciando intravvedere la fine dell’umanità come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. Anzi, fino a ieri, posto che non ci accorgeremmo di aver già mosso i primi ma decisivi passi verso l’oltre-uomo.

L’autrice, che tratteggia il cyberuomo, fa pensare che l’essere umano, giocando vanitosamente con l’artificiale, abbia finito per abbracciare tanto voluttuosamente il suo utensile da mettergli in mano la propria esistenza, fino a farsela scippare. I social network sarebbero solamente l’aspetto ludico-pop di questa deriva post-umana; la possibilità di farsi tagliare la testa e congelare il cervello per custodire l’impianto neurale, da offrire a qualche post-umano del domani, sarebbe invece il lato più scientifico, o meglio, post-scientifico del mondo contemporaneo e futuro.

Viene da chiedersi se veramente il futuro si lasci immaginare così fosco e se il mondo, sino ad oggi, non abbia mai vissuto di virtualità, anche la più sfrenata. Mi balza alla mente un pensiero eretico. L’idea è che proprio l’icona della dimensione umanissima, quella che i millenni ci hanno tramandato come un banco di conquiste di civiltà, non sia il prototipo del grande trionfo dell’irreale sul reale. E se l’uomo-algoritmico diventasse, per questa dimensione, addirittura una fonte di salvezza e razionalità? Mi riferisco alla giustizia. L’accertamento giudiziario è storico e si fonda sulle prove che è possibile ottenere a distanza di tempo, con tutte le incertezze che queste portano con sé.

Ma non solo: questa conoscenza storica, già limitata e limitante, vive di un’ulteriore limitazione, cioè le regole processuali. Queste distorcono ancora di più la ricostruzione, imponendo dei “paletti” che rendono ancora più virtuale l’accertamento (si pensi a quante volte il “comune sentire” confligga con la necessità della legge). Questo impianto ha fatto dire al giurista che il processo non corrisponde alla verità (vera) ma solamente alla verità processuale (quella che emerge dagli atti). Già questo può far concludere che il processo è un sistema millenario di iper-realtà (o post-verità). Ma su questo assunto relativistico conviene oramai anche la scienza; basta ricordare le parole del filosofo Karl Popper che ha sancito che come la scienza non sia un castello di verità ma “un cimitero di errori”.

Tuttavia la giustizia, rispetto alla scienza, affonda il colpo finale per farsi sdoganare come verità virtuale a tutti gli effetti: se la scienza pone continuamente in dubbio gli assunti e le conclusioni a cui giunge, la giustizia, al contrario, pur ammettendo di giungere a verità parziali (e dunque concretamente virtuali) decide che, ad un certo punto, quella “legge” (la sentenza) deve “passare in giudicato” e dunque trasformarsi in una regola eterna. Un doppio “salto mortale” dunque: prima l’accettazione di verità virtuali e poi la divinizzazione di questa virtualità che diviene un dogma di verità.

La prima forma di virtuale non è stata, dunque, quella inventata dalla tecnica post-umana di oggi, ma è già insita nel sacro laico che ha fondato la civiltà umana più “umanistica”, cioè la soluzione giudiziaria delle controversie. E allora, l’algoritmo della cyber-intelligenza può essere uno strumento utile per il virtuale processuale? La risposta è offerta dalla stessa normativa sul processo che, finalizzata a togliere ogni forma di soggettivismo, psicologismo o devianza “umana troppo umana” – al fine di consentire a quel virtuale (l’accertamento giudiziario) di essere il più possibile logico – impone un percorso di regole che è già un algoritmo. Il fatto che questo non sia scritto in termini di logica ma in linguaggio giuridico nulla toglie al fatto che sia una costruzione che è perfettamente riproducibile in forma di intelligenza artificiale. Questo non per sostituire giudici e avvocati, ma per fornire a questi operatori umani un aiuto che riproduca le regole post-umane e virtuali del processo.

E’ finito il tempo in cui il giurista poteva affacciarsi alla tecnologia con la modalità da “hotel abisso” (è la metafora usata dal filosofo Lukacs a proposito di quegli intellettuali che guarderebbero con curiosità a temi scomodi e “paurosi” salvo poi rientrare dogmaticamente nel proprio credo, come fossero in un hotel con “vista sul dirupo” utile solo per offrire qualche emozione “da salotto”). Il cyber-mondo dell’algoritmo sarà la salvezza del processo e della sacralità della giustizia, non sottraendo nulla all’umano ma coadiuvandone un fare tanto tecnico e raffinato come lo ius dicere.