Gli americani lo definirebbero un film con un’atmosfera da “poor-but-happy-family”. In Italia faremmo fatica ad uscire dal generico “dramma familiare”. Quando eravamo fratelli, in originale We the animals, è semmai un groviglio emotivo realistico e pulsante di un corpo/famiglia continuamente scomposto e ricomposto nella trama, ma terribilmente magnetico per lo spettatore.
Tre i fratellini attorno ai dieci anni di mamma bianca italiana e padre portoricano che vivono nella provincia estrema dello stato di New York. Manny, Joel, Jonah sono inseparabili e sembrano comporre, appunto, un corpo unico. Visivamente avvinghiati in oggettive dall’alto sul lettone in cui dormono, insieme continuamente per ogni scorribanda in mezzo al bosco tra abitazioni diroccate o tra le mura di casa spesso roventi dove “ma” e “paps” litigano in continuazione con duri episodi di violenza, il trio esplora curiosamente lo spazio naturale circostante in un selvaggio passaggio tra pubertà e adolescenza. Dicevamo di questo puzzle familiare minimo che si sfalda drasticamente e si riappacifica ciclicamente. Famigliola non proprio abbiente, quell’appena sopra la soglia di povertà, scompiglio e caos casalingo, che porta il terzetto a peregrinare a zonzo, sfiorando la coeva povertà dei bianchi (un vecchio gentile e il nipote adolescente ossessionato da vecchie vhs con scene pornografiche in tv da 144). Manny e Joel sono vicini a papà. Anzi quando Paps va via di casa dopo l’ennesima lite con Ma, Manny ne indossa perfino la simbolica collana del comando. Jonah, invece, è vicino e parteggia per mamma. Ma soprattutto con i suoi quaderni zeppi di disegni che compone di notte sotto al letto, con una pila puntata per fare luce, sublima i traumi, le fratture, i dolori familiari con una rappresentazione grafica che diventa animata e dà spessore all’originalità espressiva del racconto.
Opera prima di Jeremiah Zagar e tratto dal romanzo autobiografico di Justin Torres (datato 2011), Quando eravamo fratelli vive di felici e compositi slanci di regia che sembrano disegnati sulle traiettorie sinuose e improvvise di Terrence Malick, macchina da presa a mano tutto il tempo che avanza, traballa, ondeggia, scorge stralci sfuggenti di una quotidianità rurale e sudata, granulosa e sentimentale, violenta e cruda. Dentro alle pieghe del racconto, negli occhi chiari e luminosi di Jonah, e poi di Manny e Joel, si rispecchia infine la fragilità del tentennamento genitoriale. Quella mamma che continuamente intima al figlioletto “Promettimi che avrai sempre nove anni”, o che per l’andirivieni del padre afferma “Dovete dirmi voi cosa fare”, è una pugnalata mortale per chi sa cosa significhi la mancanza di un nucleo familiare solido e felice. In sala grazie ad I wonder dal 16 maggio.