Il decreto attuativo pubblicato in Gazzetta ufficiale prevede che il 7% della raccolta sia investito in fondi di venture capital che investono in start up e in società quotate all'Aim, il listino di Piazza Affari dedicato alle piccole e medie imprese italiane. Allarme di Bankitalia
Arriva il decreto sui nuovi Piani individuali di risparmio (Pir). Ma, dopo mesi di gestazione, l’operazione rischia di essere un flop. Non a caso il governo si sarebbe riservato la possibilità di intervenire nuovamente sul tema nel giro di sei mesi. Nel dettaglio, la disciplina attuativa appena pubblicata in Gazzetta ufficiale prevede che il 7% della raccolta dei Pir siano investiti in fondi di venture capital e in società quotate all’Aim, il listino di Piazza Affari dedicato alle piccole e medie imprese italiane. Il motivo? Visto che le banche non prestano soldi a sufficienza alle alle imprese (a febbraio -0,1% rispetto all’anno prima, secondo dati Bankitalia), il governo gialloverde spera di indirizzare il risparmio delle famiglie verso il finanziamento dell’economia reale. Il meccanismo è del resto quello ideato dall’ex ministro Pier Carlo Padoan. Ma ora i Pir hanno un vincolo di investimento in più, con rischi maggiori per il risparmiatore.
Ma andiamo per gradi. Sin dalla loro nascita i Pir hanno avuto la finalità di convogliare il risparmio degli italiani sulle aziende nazionali oppure operanti nel nostro Paese. Con questo obiettivo, il governo di Paolo Gentiloni aveva incentivato il risparmio investito in Pir azzerando le tasse su eventuali rendimenti. A patto però che l’investitore mantenesse in portafoglio il prodotto per cinque anni. Di qui il successo dei Pir per i quali la legge fissava precisi paletti di investimento: il 70% del denaro doveva affluire in azioni o obbligazioni di aziende italiane quotate o europee con “stabile organizzazione” in Italia. Inoltre il 30% di quel 70% – pari al 21% del portafoglio complessivo – doveva andare in società non quotate sull’indice principale. Infine, il restante 30% era destinato a qualsiasi strumento finanziario, inclusi conti correnti e depositi bancari.
Ora, con l’intervento del governo gialloverde, ci sarà in più anche l’obbligo di mettere una quota (7%) di quei soldi in piccole e medie imprese non quotate e in società che investono in start-up (i cosiddetti venture capital). Il 70% del valore complessivo dei Pir di cui sopra dovrà essere investito per un 5% in strumenti finanziari emessi da piccole e medie imprese (Pmi) e scambiati su sistemi multilaterali di negoziazione e per almeno un 5% in venture capital. Le piccole imprese non dovranno avere più di 250 dipendenti, non dovranno essere quotate su un mercato regolamentato e non dovranno aver ricevuto “aiuti al finanziamento del rischio” per un importo superiore a 15 milioni. Dal punto di vista della tipologia di impresa, il legislatore ha specificato che si tratta di aziende con un fatturato massimo di 50 milioni o, in alternativa, un bilancio sotto i 43 milioni.
Ma per Bankitalia, i nuovi vincoli non promettono niente di buono: “Le nuove norme aumentano i rischi di perdite” per i risparmiatori che investano in Pir, uno strumento che finora ha portato lauti guadagni soprattutto per banche e società di gestione. “Aumenta il rischio che i fondi registrino perdite derivanti da vendite di attività in mercati poco liquidi a fronte di episodi di forte volatilità dei corsi che inducano i sottoscrittori a liquidare l’investimento prima di conseguire il beneficio fiscale – nota via Nazionale nell’ultimo Rapporto sulla stabilità finanziaria -. Tali perdite potrebbero riflettersi negativamente sui risultati dei Pir e sulla reputazione degli intermediari che li promuovono. Proprio al fine di limitare questi rischi gli investimenti dei fondi aperti italiani in titoli di Pmi italiane e in fondi di venture capital sono attualmente pressoché nulli”.
In realtà per i venture capital le cose non starebbero esattamente in questi termini. Il rischio può essere fortemente mitigato: “Il risparmiatore non dovrà investire direttamente in start-up, ma in società di investimento che finanziano nuove imprese – spiega Luigi Capello, numero uno di LVenture Group– In questo modo, il rischio è ridotto perché il venture capital non investe in una sola azienda, ma su un portafoglio di imprese con una strategia di diversificazione che tutela l’investimento”. Se questa è l’idea dei venture capital, bisognerà vedere che cosa ne penseranno i risparmiatori che finora hanno premiato i Pir. Per ora l’unica certezza è che non sarà facile replicare i numeri del passato: secondo dati Assogestioni, in due anni, 72 fondi Pir hanno raccolto quasi 15 miliardi (10,9 nel 2017 e 3,95 nel 2018) con un notevole afflusso di denaro sulle società italiane.