Allegro ma non troppo, dark ma non abbastanza, The Dead Don’t Die porta il Jarmusch style in un territorio che – evidentemente – non gli appartiene, e se proprio di horror dobbiam parlare, alla lunga preferiamo i suoi vampiri, quelli del meraviglioso Only Lovers Left Alive che portò al Cannes nel 2013. D’altra parte è lo stesso cineasta americano a dichiarare che i succhiatori di sangue sono i suoi mostri preferiti, quelli lanciati dalla Universal (che pure distribuisce nel mondo questo film) di cui si nutriva da piccolo, crescendo poi con gli incubi di Mario Bava, Dario Argento e John Carpenter che – proprio oggi – ha ricevuto la Carrosse d’Or alla limitrofa Quinzaine des Realisateurs.
Certo, nel film c’è l’ovvia metafora dei morti viventi, c’è la politica intrinseca che si fa attualità (“Trump è il vero zombie dei nostri tempi” allude Jim in conferenza stampa) c’è l’inconfondibile umorismo legato ai dettagli e ai personaggi assemblati in un coro di star amatissime e sodali con Bill Murray, Adam Driver, Steve Buscemi e Tilda Swinton su tutti, a cui si uniscono le preziose partecipazioni degli amici Iggy Pop e Tom Waits. A compromettere la riuscita complessiva dell’opera è però la sua debole ossatura, quella solidità strutturale di cui sappiamo capace il 66enne regista dell’Ohio capace di fornire al proprio cinema inimitabili strati d’etica ed estetica.
The Dead Don’t Die si concentra nella mini cittadina di provincia Centerville “so nice a place” dove abitano “ben” 738 persone. L’universo umano e urbanistico è perfettamente jarmuschiano con i due poliziotti locali (Murray e Driver) a proteggere i residenti di cui sanno vita, morte e miracoli. Ma è forse proprio sul tema “morte” che qualcosa improvvisamente sfugge al loro controllo: mentre la luce del giorno sembra non finire mai e gli animali domestici scompaiono in massa da ogni famiglia, dal cimitero del villaggio si agitano le anime dei defunti che prendon forma nei corpi di zombie deformi, “essicati e disidratati” commenta Jarmusch. Come gestire l’emergenza degli sventramenti delle cameriere dell’unico diner di Centerville? Fra mille battute reiterate come lo stile del regista insegna e centinaia di magnifiche trovate racchiuse in quei “details” di cui è indiscusso maestro (il berretto del razzista Buscemi “Keep America White Again”, la funeraria scozzese Tilda “Zelda” Swinton che decapita gli zombie come un samurai, la lapide dedicata a Sam Fuller, il tormentone della canzone originale, Iggy Pop mutato in incredibile zombie rock e il suo collega Tom Waits trasformato in un eremita ladro di polli ..) la risposta non arriva chiara e a perdersi è il senso ultimo del film: dove vuole parare? Cosa può darci o dirci più di quanto già così bene il compianto George Romero ed epigoni (fra cui l’esilarante cinema di Jordan Peele…) hanno fatto o stanno facendo?
Per Jarmusch la fascinazione “zombie” nasce dal fatto che sono gli unici “mostri che nascono all’interno dell’uomo e non arrivano dall’esterno, e sono quelli in cui vittime e carnefici arrivano a corrispondere”. In tal senso il discorso politico si fa pregno di sangue umano, “a me non interessa la politica in quanto tale ma le coscienze umane, laddove le due cose non dialogano la prima perde di valore” annuncia il filmmaker. Ma non bastano queste sue sagge parole a salvare una sceneggiatura inconclusa e sfilacciata, seppur ironicamente giustificata dai personaggi quando dichiarano candidamente – da copione – di non averla letta in toto: Jarmusch sa come creare il cinema nel cinema, l’ha sempre fatto e con risultati più brillanti di quest’ultima prova. La fiducia nel suo talento resta comunque incrollabile nell’attesa di un capitolo migliore.