Economia & Lobby

Banche, la concentrazione è una cura peggiore del male

di Ugo Marani*

Nel corso degli ultimi 20 anni il sistema bancario italiano, così come è accaduto un po’ dovunque nei Paesi occidentali, è stato interessato da ondate sistematiche di fusioni e di acquisizioni (M&A), soprattutto nei confronti di banche di minori dimensioni. Ma ciò che rende peculiare il “caso italiano” è la circostanza che, a distanza di anni, si parli ancora di un sistema frammentato; esso si caratterizza, a differenza degli altri Paesi, per una gestione dell’attivo fondamentalmente indirizzata ai prestiti a famiglie e a imprese, per una dimensione patologica dei “prestiti non esigibili” (oramai stabilmente superiori al 20% del Pil), per indicatori di redditività più bassi che nella media dell’Unione europea.

A detta del Fondo Monetario Internazionale il processo di razionalizzazione del nostro sistema bancario non sarebbe ancora del tutto compiuto: il weak profitability problem, a sua detta, potrebbe essere attenuato da una più decisa azione di incorporazione delle banche di minori dimensioni e dalla conseguente “razionalizzazione” del sistema.

Non vi è dubbio che i fenomeni osservati siano effettivamente quelli esistenti e prevalenti; tuttavia è legittimo ipotizzare che, sulla base di quanto avvenuto nell’ultimo decennio, non siano tanto le mancate concentrazioni ad avere concausato i problemi di redditività, quanto piuttosto un loro abuso ad aver aggravato la scarsa performance delle banche di maggiori dimensioni.

D’altro canto anche la letteratura più avvertita ci ricorda che le conclusioni ultime dei processi di acquisizione non sono univoche: il consolidamento, si può evincere, ha successo se e solo se comporta una radicale trasformazione dell’organizzazione produttiva, che abbia come esito la fruizione di economie di scala, di economie di scopo, l’incremento del potere di mercato e la riduzione nella volatilità dei guadagni. Simili finalità sono state estranee (o comunque nei fatti non perseguite) nel caso delle banche italiane; la ricostruzione ci porta legittimamente a supporre che:

1. le M&A si sono caratterizzate come episodi short minded, poiché nessun serio processo di ristrutturazione produttivo ha fatto seguito all’iniziale acquisizione di un’altra banca;

2. l’effetto “finanziario” positivo, ovvero l’incremento del valore di mercato della banca “acquirente”, è stato confinato al breve periodo;

3. l’operare congiunto dei fenomeni 1 e 2 ha determinato, nel medio periodo, un indebolimento delle condizioni finanziarie e di redditività della banca.

Viene dunque da chiedersi quali siano stati i motivi che abbiano determinato un fenomeno così vigoroso. Una possibile risposta, per il caso italiano, può essere fornita da alcuni modelli “non convenzionali” che riconducono processi abnormi di M&A alla cosidetta desperation to grow, un’accezione che starebbe a indicare talune specifiche circostanze che spingerebbero i manager bancari ad intraprendere iniziative “inappropriate e rischiose”. In altri termini: la desperation avrebbe reso il manager propenso a strategie rischiose, motivate essenzialmente dall’opportunità, non necessariamente fondata, che la banca potesse crescere.

L’estensione al settore bancario di assunzioni diverse da quelle dei “mercati finanziari efficienti” ci consente di dare fondamento all’idea che ci possano essere pressioni (desperation) alla crescita di una banca in relazione a due fenomeni:

1. Se la crescita che si genera nel processo produttivo “interna” è bassa, i manager della banca possono decidere di procedere ad acquisizioni di altre banche, trascurando gli effetti reali di medio periodo;

2. Se il fenomeno tende a riprodursi nel tempo la banca può divenire dipendente dalle acquisizioni per crescere, e vulnerabile a sovrappagarle.

Correlato alla desperation to grow è l’approccio della Hubris Economics ai mercati finanziari e alle M&A da parte delle banche. Già sul finire degli anni Novanta si fa strada (Milbourn et al.,1999) l’idea che i processi di acquisizione bancari possano essere ricondotti al comportamento degli amministratori (Ceo) e a ipotesi differenti da quelle dei mercati finanziari efficienti. In questa classe di modelli la crescita tramite acquisizioni dipenderebbe dall’incentivo dei Ceo alla crescita dimensionale della propria banca, che garantirebbe reputazione e retribuzione più elevate. Ma un Ceo può essere soggetto ad overconfidence riguardo sia la propria abilità, sia la possibilità di successo di un’acquisizione.

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*Università degli Studi di Napoli L’Orientale