C’è il re  dei palazzinari, Francesco Gaetano Caltagirone; c’è chi fabbrica da una vita automobili come l’ex gruppo Fiat della famiglia Agnelli (oggi con il cuore in America e la testa in Olanda sotto l’egida di Fiat Chrysler Automobiles). E c’è anche chi fa affari con le cliniche private e le residenze per anziani, come la famiglia Angelucci e i De Benedetti. E ancora un immobiliarista come Valter Mainetti con il Foglio e la dinastia dei Riffeser Monti, un passato nel petrolio e un presente nel settore alberghiero e la catena di giornali che vanno dal Giorno al Quotidiano Nazionale. Affari diversi ma sempre affari con un’appendice non di poco conto: tutti loro possiedono giornali. Una passione che non ha mai reso molto sul piano dei ritorni economici e che nell’ultimo decennio è stata per lo più fonte di perdite gigantesche, ma che evidentemente vale molto di più di quel che appare nei buchi dei bilanci. Possedere un giornale vuol dire un potente beneficio indiretto che evidentemente vale il sacrificio economico. Puoi fare pressione, ingaggiare battaglie, solleticare l’opinione pubblica sui temi che stanno a cuore ai tuoi affari. Tacitare e silenziare le zone d’ombra dei tuoi business. Insomma l’ex quarto potere è servito. E tanto.

Agli editori impuri e ai loro affari collaterali dedica una lunga inchiesta il mensile FQ Millennium, diretto da Peter Gomez, nel numero attualmente in edicola dedicato al “sucidio” della carta stampata e dell’informazione tv in Italia, fra intrecci di interessi, opinioni che sommergono le notizie, fake news rifilate ai lettori. Che infatti sempre più disertano le edicole. Si pensi solo al ruolo che ha avuto La Stampa di Torino (“La bugiarda” per gli operai di Mirafiori negli anni Settanta) per decenni nell’assecondare le politiche di rottamazione con soldi pubblici dell’auto. O le battaglie sui piani regolatori di intere città che potevano o meno favorire grandi costruttori come i Caltagirone che non a caso avevano e hanno con Il Messaggero, Il Mattino e Il Gazzettino le loro radici proprio nelle aree metropolitane di grandi città. E le convenzioni con il sistema sanitario nazionale che i De Benedetti con la loro Kos e gli Angelucci con il San Raffaele hanno negli anni coltivato e perseguito. Conta e tanto fare l’editore, a tal punto da sopportarne gli oneri, pur di fare da sponda agli affari veri dei padroni della stampa. È questo il filo rosso che collega tutti i signori dell’editoria impura.

Una menzione a parte merita la famiglia Angelucci con la Tosinvest: ogni volta che partono le rotative dei suoi giornali, che siano Libero, Il Tempo o le testate dei locali “Corrieri” di Lazio e Abruzzo, Giampaolo Angelucci, l’erede dell’impero della sanità privata fondata dal padre, il deputato di Forza Italia da tre legislature Antonio Angelucci, segna rosso sulla sua agenda personale. Libero, la testata più importante, posseduta al 60% dalla Fondazione San Raffaele che fa capo alla famiglia e al 40% dalla stessa Tosinvest, ha cumulato perdite per oltre sei milioni solo negli ultimi tre anni senza l’aiuto dei contributi pubblici che drogano i ricavi per oltre tre milioni l’anno, il buco salirebbe a 15 milioni nel triennio. Questi tre milioni forniti dai contribuenti pagano metà dello stipendio di Vittorio Feltri e dell’intera sua redazione.

Nel processo che al Tribunale di Velletri vede imputata una funzionaria appena promossa dal presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, Antonio e Giampaolo Angelucci sono accusati fra l’altro di aver utilizzato i loro “mezzi d’informazione”  per esercitare “forme indebite di pressione sulle indagini di polizia giudiziaria in corso”, con l’obiettivo di “creare condizioni di perdurante impunità”. Le indagini erano appunto incentrate su una presunta truffa alla sanità pubblica regionale, a base di prestazioni gonfiate, operate al San Raffaele di Velletri, per la quale si attende a giugno la sentenza di primo grado.

Leggi l’inchiesta completa su FQ MillenniuM di maggio, attualmente in edicola

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