Marcello De Vito “agisce barattando il suo ruolo, operando in maniera tale da funzionalizzare i propri poteri agli interessi dei privati, mostrando una elevata capacità di incidere e indirizzare gli atti espressione di uffici formalmente diversi dal proprio”. È quanto affermano i giudici del tribunale del Riesame di Roma nelle motivazioni con cui hanno confermato il carcere per l’ex presidente dell’Assemblea capitolina arrestato il 20 marzo scorso per l’accusa di corruzione. L’accusa nei confronti di De Vito è di aver ricevuto favori e soldi per “oliare” i provvedimenti amministrativi sulla costruzione dello stadio della Roma e altri importanti progetti immobiliari. Questo è emerso da un’inchiesta nata da quella sul nuovo impianto del club giallorosso in cui sono coinvolti il costruttore Luca Parnasi e l’avvocato Luca Lanzalone.
“Nel caso di specie – scrivono i giudici – risulta evidente che il De Vito ha attivato ed agito proprio sulla scorta dei propri poteri e della propria funzione istituzionale intervenendo direttamente sugli assessori ed i relativi funzionari amministrativi”. “De Vito gode di notevole credito nel circuito del M5s e nel Comune di Roma”, si legge nelle motivazione del Riesame. Secondo i giudici, il “suo peso specifico” e la sua “capacità di alterare” gli interessi pubblici è dimostrata dal fatto che l’ex presidente dell’Assemblea capitolina è riuscito “a collocare nelle multiservizi Acea un uomo di sua fiducia interloquendo a riguardo in maniera paritaria con Luca Lanzalone“. “Dimostrando – si legge ancora – di essere in grado di andare oltre le proprie specifiche competenze, De Vito ha contribuito in maniera decisiva alla nomina dell’ad di Acea, feudo di Lanzalone, per la quale viene personalmente ingraziato da quest’ultimo”. Il riferimento in questo caso è alla nomina di Stefano Donnarumma, a sua volta indagato per corruzione.
Per “De Vito deve sottolinearsene la capacità dimostrata di divenire affidabile interlocutore privilegiato in un breve lasso di tempo – dal 2017 ai primi mesi del 2019 – di grandi gruppi imprenditoriali interessanti a importanti opere urbanistiche nella Capitale”, proseguono i giudici del Riesame di Roma. Secondo le loro motivazioni, De Vito “non è un ‘taglianastri’, come definito da Camillo Mezzacapo in sede di interrogatorio, ma è ‘l’amico potente‘ del quale egli è fidato longa manus, rappresentando il Mezzacapo il raccordo materiale, collettore di tangenti, delle volontà corruttive dei privati e del politico amico di lunga data”.
“Sono gli incarichi professionali conferiti a Mezzacapo a costituire le utilità illecite conseguite da De Vito”, scrive il Tribunale. “Insomma, le somme di denaro corrisposte a titolo di compenso costituiscono le tangenti finalizzate a retribuire De Vito – si legge nel provvedimento – trattandosi di remunerazioni che non solo non risultano in linea con quelle ordinariamente percepite da Mezzacapo, ma che sono corrisposte per incarichi dal tenore formale perché privi di reali prestazioni professionali”. Il Riesame mette in evidenza anche i rapporti De Vito-Parnasi “concernenti progetto nuovo stadio, intervento urbanistico sui terreni ex Fiera di Roma, e ipotesi spostamento sede Acea presso il Business Park del nuovo stadio”.
Il “sodalizio” con Mezzacapo e lo stadio – Il presidente dell’Assemblea capitolina De Vito e l’avvocato Camillo Mezzacapo, secondo la giudice per le indagini preliminari Maria Paola Tomaselli, avevano messo su un “vero e proprio sodalizio” e dalle intercettazioni (leggi) captate dai carabinieri emerge la volontà di sfruttare “il ruolo pubblico di De Vito per fini privatistici e ottenere lauti guadagni”. Sempre stando a quanto scrive il gip nell’ordinanza, il presidente dell’Assemblea capitolina “ha messo a disposizione la sua pubblica funzione” per “assecondare, violando i principi di imparzialità e correttezza cui deve uniformarsi l’azione amministrativa, interessi di natura privatistica facenti capo al gruppo Parnasi”. Una tesi ribadita anche dalle motivazioni del Riesame.