Mario Vaudano, 74 anni, all’epoca dei fatti giudice istruttore nel capoluogo piemontese, è tornato nella sua città per partecipare a un incontro organizzato dalle Agende Rosse. E da consulente della famiglia, indica cosa approfondire: “Se esiste ancora un magistrato che sa qualcosa di più, lo dica. Aiuti a spiegare le cose fino in fondo”
Chiede alla procura di Milano di andare a fondo, di ascoltare alcuni testimoni chiave – altri magistrati – dell’epoca in cui il procuratore di Torino Bruno Caccia venne ucciso, il 26 giugno 1983. A loro, molti ex colleghi che come lui sono ormai in pensione, chiede di farsi avanti: “Se esiste ancora un magistrato che sa qualcosa di più, lo dica. Aiuti a spiegare le cose fino in fondo”. Mario Vaudano, 74 anni, all’epoca dei fatti giudice istruttore nel capoluogo piemontese, poi procuratore ad Aosta e infine magistrato dell’Ufficio europeo antifrode (Olaf), è tornato nella sua città per partecipare a un incontro organizzato dalle Agende Rosse sull’omicidio Caccia, con la figlia del procuratore, Paola Caccia, l’avvocato Fabio Repici e Davide Mattiello, consulente della commissione antimafia.
Vaudano insiste affinché alcune piste, suggerite dalla famiglia Caccia e dall’avvocato Repici, siano approfondite. Mentre andava avanti il processo a Rocco Schirripa, condannato (non ancora definitivo) all’ergastolo come esecutore, la procura di Milano chiedeva di archiviare l’indagine nata dalle denunce contro l’avvocato siciliano e boss di Cosa Nostra, Rosario Cattafi, e un killer, Demetrio Latella. La famiglia Caccia si è opposta e il tribunale non ha ancora deciso cosa fare: potrebbe chiudere tutto oppure chiedere altri accertamenti. L’ex magistrato, consulente della famiglia, indica cosa approfondire. “Hanno basato l’inchiesta sulle carte giudiziarie del passato – spiega -. La maggior parte delle persone che potevano essere sentite non sono state chiamate, tranne il magistrato Olindo Canali e un ufficiale dei carabinieri”. Il primo è un giudice che, all’epoca dell’inchiesta sull’omicidio Caccia, era l’uditore giudiziario del pm titolare dell’indagine, Francesco Di Maggio. Da quest’ultimo, alcuni anni dopo, avrebbe appreso che in casa di Cattafi era stato trovato il finto volantino delle Brigate Rosse che rivendicava l’assassinio del magistrato, un gesto smentito dalle stesse Br nel corso di uno dei processi in corso a Torino. La Dda di Milano ritiene la testimonianza di Canali poco convincente e smentita da quella dell’ufficiale dei carabinieri, Eugenio Morini, che partecipò alla perquisizione di Cattafi. Tutti gli altri possibili testimoni indicati nelle memorie firmate da Repici, però, non sono stati ascoltati perché ritenuti privi di rilevanza. Vaudano indica poi la pista del Casinò di Saint Vincent, su cui all’epoca a Torino erano in corso indagini per riciclaggio di denaro della mafia: “Lì però si riciclavano anche tangenti della politica. Un giro molto più grande di Cattafi”, alludendo a un intreccio di interessi tra mafia e politica su cui i magistrati torinesi avrebbero potuto far luce.
L’ex magistrato non è neanche soddisfatto dalle informazioni emerse dai processi sulla pista calabrese, quella della ‘ndrangheta, con la condanna definitiva del boss Mimmo Belfiore come mandante (nel 1992) e con quella a Schirripa come uno degli esecutori materiali. Caccia sarebbe stato ucciso perché incorruttibile e inavvicinabile, a differenza di alcuni suoi colleghi che all’epoca avevano rapporti stabili con il milieu criminale: “In base a questa chiave di lettura, quanti altri magistrati incorruttibili avrebbero dovuto essere uccisi? – si chiede Vaudano -. Caccia ha avuto un merito: arrivato in procura, ha rotto un clima non sano. Ricordo il mio capo all’ufficio istruzione, Mario Carassi, quando arrivai mi disse di fare attenzione ad alcune persone”. Come Luigi Moschella, procuratore messinese a Torino in stretti rapporti con un uomo di quel milieu, Gianfranco Gonella, e frequentatore del bar Monique, bar vicino al palazzo di giustizia e luogo di incontro tra criminali e alcuni magistrati, alcuni dei quali provenivano proprio dalle zone di Cattafi. “Avevano anche contatti con ambienti massonici. Nel corso della mia inchiesta sullo scandalo ‘Petroli’ scoprii che alcuni alti ufficiali della Guardia di finanza erano iscritti alla P2 e a Torino, in corso Vittorio, c’era la loggia Aletheia che serviva da copertura della sede distaccata della P2”. Ma torniamo alla zona grigia. Dopo l’inchiesta sull’omicidio di Caccia molti di quei magistrati dalle frequentazioni dubbie vennero indagati e processati, spesso ne uscirono indenni, a volte soltanto con qualche sanzione disciplinare. Moschella, ad esempio, fu indagato per associazione a delinquere insieme a Gonella, Mimmo Belfiore e Placido Barresi (cognato di Belfiore, processato e assolto dall’accusa di aver preso parte all’omicidio Caccia), e poi venne prosciolto, ma quei legami furono confermati. Insomma, su quella “terra di mezzo” ci sono già state delle indagini e Moschella è morto ormai da tempo, però Vaudano e la famiglia Caccia ritengono ci sia ancora molto da fare, che responsabili e complici siano ancora in giro: “Le indagini degli ultimi anni non hanno mai approfondito queste piste e mi risulta che la procura di Milano non abbia neanche sentito i figli di Caccia – aggiunge -. Sembra esserci un rifiuto a scavare nel passato”. Parrebbe, però, più un lavoro storico: “Sarebbe un lavoro storico e giudiziario – corregge il magistrato dello scandalo ‘Petroli’ -. C’è ancora possibilità di fare giustizia”.