PAGINE NERE - In "Il padrino dell'antimafia", il giornalista di Repubblica scava oltre gli atti giudiziari per narrare la resistibile ascesa dell'autoproclamato paladino della legalità marchiato Confindustria, da poco condannato a 14 anni e ancora indagato per mafia
Antonello Montante, il finto paladino dell’antimafia andato a processo per vari reati e tuttora indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, ha subito recentemente una pesante condanna di primo grado a 14 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo a sistema informatico. Ma la sua non è solanto una storia giudiziaria, di maneggi commessi sottobanco finché qualcuno non li ha scoperti e perseguiti. L’antimafia di Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia e vicepresidente nazionale con delega alla “legalità” dell’associazione degli industriali italiani, era finta alla luce del sole, così come gli affari e gli intrighi di poltrone che in suo nome si consumavano. Bastava poco per smascherarla, invece ha resistito per un decennio, ammaliando politici, giornalisti, associazioni, amministrazioni pubbliche (ne scrive anche Claudio Fava sul nostro mensile FQ MillenniuM attualmente in edicola). Ecco perché questa storia non va letta soltanto attraverso i – preziosi – atti giudiziari, ma con tutto il suo contorno e il suo contesto. Ed è proprio là che ci porta Il Padrino dell’antimafia. Una cronaca italiana sul potere infetto (311 pagine, 18 euro), scritto da Attilio Bolzoni, giornalista di Repubblica fra i più autorevoli osservatori di cose di mafia, opera prima della casa editrice milanese Zolfo, nata pochi mesi fa dall’esperienza di Melampo. Perché quando si tratta di raccontare le “mafie incensurate”, come Bolzoni le etichetta, per definizione non basta fermarsi agli atti giudiziari, agli indagati, agli intercettati.
La finzione di Montante e soci inizia fra il 2004 e il 2006 e culmina quando Confindustria Sicilia annuncia un svolta epocale: saranno cacciati dall’associazione tutti gli imprenditori scoperti a pagare il pizzo a Cosa nostra. Calogero Montante detto Antonello e Ivanhoe Lo Bello detto Ivan sono i paladini di questa rivoluzione. Su di loro escono articoli e libri entusiastici, sono invitati in tutta Italia a convegni antimafia, firmano “protocolli di legalità” con enti pubblici. Il 23 gennaio 2014 il governo Renzi, su proposta del ministro dell’Interno Angelino Alfano, nomina Montante nel comitato direttivo dell’Agenzia dei beni confiscati alla criminalità organizzata. Il tutto va avanti senza intoppi fino a quando, il 9 febbraio 2015, Bolzoni firma con il collega Francesco Viviano un articolo sulla prima pagina di Repubblica che svela l’indagine per mafia a carico del paladino dell’antimafia, e pone diversi interrrogativi sulla genuinità di quella “rivoluzione”. In questi dieci anni, nessuno pare essersi accorto di un dato semplice e verificabile: il numero di imprenditori espulsi da Confindustria Sicilia per aver pagato il pizzo assomma a zero. Zero. Tondo tondo. E non è tutto: al di là degli esiti giudiziari, la figura che emerge dalle indagini è l’esatto opposto di un paladino della legalità. Montante ha in casa un caveau segreto pieno di dossier su sodali e avversari, corredati dai file audio delle conversazioni che usava registrare all’insaputa dell’interlocutore. Si era inventato passate glorie impreditoriali inesistenti e intanto manovrava nell’ombra per gestire nomine e affari. La legalità, secondo l’accusa, era usata al contrario: chi si opponeva ai suoi piani riceveva le attenzioni delle forze dell’ordine, grazie a ufficiali compiacenti.
Già ci sarebbe da meditare su questo gigantesco abbaglio collettivo. Ma come spesso succede in questo Paese, non si tratta solo di un abbaglio. Il 9 febbraio 2015, data di pubblicazione dell’articolo che svelava la finzione, è la linea netta tracciata da Bolzoni. Chi ha intrattenuto rapporti stretti con Montante prima di quel giorno poteva anche non sapere. Chi ha continuato ad averli dopo, o si è lanciato in frettolose difese d’ufficio pubbliche, dovrebbe fornire qualche spiegazione, specie dopo la condanna (certo, di primo grado. Ma quel che conta, fuori dal tribunale, sono i fatti documentati). L’elenco è lungo, comprende giornalisti e persino attivisti antimafia, da Tano Grasso, storico leader della lotta contro il pizzo firmatario di un comunicato di solidarietà a Montante dopo l’articolo di Repubblica, a don Luigi Ciotti, troppo lento e tiepido, accusa Bolzoni, nel prendere le distanze da un personaggio con cui Libera, la rete di associazioni da lui fondata, aveva avuto rapporti fitti. Ma chi supera tutti è Confindustria, con i presidenti Giorgio Squinzi e Vincenzo Boccia, attualmente in carica. Il primo partecipa alla corsa della solidarietà incondizionata al suo uomo. Il secondo, appena nominato, offre a Montante un incarico in Reteimprese. Non basta: il collegio dei probiviri degli industriali italiani convoca per un procedimento disciplinare non Montante, ma il suo grande accusatore Marco Venturi, che infatti si dimette a stretto giro. E che dire dell’allora ministro dell’Interno Alfano che – conteggia Bolzoni – incontra l’indagato per mafia Montante almeno sette volte dopo che la notizia dell’indagine per concorso esterno a Cosa nostra è ormai pubblica? O del sindaco di Catania Enzo Bianco che – si legge nel libro– scrive due mail niente meno che a Carlo De Benedetti per lamentarsi della “scompostezza” dell’articolo di Repubblica?
Il padrino dell’antimafia racconta una storia siciliana, ma non locale. Apre una domanda, che già si pose a suo tempo per il re di tutti gli intrallazzatori, Licio Gelli: è il puparo o il pupo di qualcun altro?
LA FRASE – Il territorio racconta sempre tutto. Basta saperlo (e volerlo) ascoltare.