“Perché gli indiani non possono lavorare come tutti gli altri? Perché possono godersi la vita con i soldi delle mie tasse? Smettiamola con questa vecchia storia! Gli indiani sono dei cittadini come tutti gli altri, se vogliono avere gli stessi diritti devono sottomettersi agli stessi doveri!”. Ecco il tipo di commenti che è possibile ascoltare quando si parla dei popoli indigeni in Brasile. Nella Costituzione del 1988 post-dittatura questa popolazione, stimata intorno agli 11 milioni prima dell’invasione dei portoghesi, ora di circa 900.000 persone (lo 0,4% dei brasiliani) e composta da 305 popoli che parlano 274 lingue diverse, si è vista finalmente riconoscere la sua legittimità originaria sulle sue terre ancestrali e il diritto “alla differenza”, cioè il rispetto per la sua organizzazione sociale, le usanze, le lingue, le credenze e le tradizioni. Un diritto garantito anche dall’Organizzazione internazionale del lavoro (OIT, Convenzione 169).
Questo chiaramente non esclude gli altri diritti della Costituzione, ma sottolinea una specificità originaria. Un diritto già riconosciuto dalla Magna Charta, certo, ma che non è affatto applicato e che nei primi cento giorni del governo Bolsonaro sta per essere totalmente smantellato.
Il discorso perverso dell’integrazione
Il presidente Jair Bolsonaro è sempre stato contro i popoli indigeni, ma negli anni ha cambiato stile. Mentre vent’anni fa si rammaricava che la cavalleria brasiliana non avesse decimato tutti gli indigeni come negli Stati Uniti, durante la campagna presidenziale del 2018 ha difeso l’integrazione di quei popoli nella società brasiliana: “Molti vogliono condannarvi a rimanere isolati nelle vostre terre, come qualcosa di raro, come se fosse un parco zoologico. Ma voi non meritate questo. Siete brasiliani e avete tutto il diritto di sfruttare la vostra terra e anche di venderla, se volete”.
Questa posizione, in teoria favorevole ai diritti degli indigeni, è simile al discorso “assimilazionista” della dittatura che concepiva un unico modello culturale ed economico al quale i popoli ancestrali dovevano adeguarsi. Bolsonaro cerca di stuzzicare da una parte il sentimento di ingiustizia della popolazione precarizzata, costretta al lavoro senza fine per sopravvivere, e dall’altra gli indigeni stessi attirati dalla seduzione del profitto e dell’autonomia in spregio a una struttura culturale e storica.
Così, tra le prime misure del suo governo, Bolsonaro ha tolto agli indigeni la gestione dei confini dei loro territori per… affidarla alla lobby dei proprietari agricoli. Il Funai, il dipartimento brasiliano agli Affari indigeni, legato finora al Ministero della Giustizia, aveva la responsabilità di delimitare i confini delle terre indigene e decidere delle licenze ambientali. Queste competenze gli sono state ritirate e cedute al ministero dell’Agricoltura che è in mano al potere del latifondo. Il Funai è stato relegato al Ministero dei diritti umani della pastora evangelica Damares Alves che ha dichiarato recentemente di non volere più avere nessun dialogo con le organizzazioni non governative perché “ora l’indiano parla direttamente con noi e lavoriamo per soddisfare le sue vere necessità”. Siamo tornati indietro di un secolo, al tempo delle campagne moralistiche di evangelizzazione…
Una terra ambita da profitti internazionali
Ma questo i popoli indigeni non sono affatto disposti ad accettarlo e, alla fine di aprile, il loro annuale “Accampamento Terra Libera” ha radunato 4000 persone di 107 delegazioni. “Abbiamo resistito ai colonizzatori che ci hanno decimato, all’impero che ha voluto civilizzarci e alla dittatura che ci ha assassinati, resisteremo anche al fascismo!” ha gridato Sonia Guajajara, leader del popolo Guajajara e prima candidata indigena alla vice-presidenza del Brasile, durante la conferenza stampa di apertura dell’incontro.
Secondo il rapporto dell’organizzazione Global Witness, 57 difensori della terra e dell’ambiente sono stati assassinati in Brasile nel 2017, il più alto numero di morti registrati finora in qualsiasi paese del mondo. L’organizzazione Reporter Brasil ha annunciato che almeno 14 territori indigeni sono stati minacciati e sono senza protezione dall’inizio dell’anno. Numeri che crescono allo stesso ritmo della deforestazione che è aumentata del 54% a gennaio di quest’anno rispetto allo stesso mese del 2018 (secondo Instituto Homem e Meio Ambiente da Amazônia, Imazon).
Al centro di tutto questo, gli interessi commerciali dell’export di carne e di soia. Perché queste terre valgono oro, per chi non sa fare altro che sfruttarle. Nel 2017, l’agribusiness rappresentava il 23% del Prodotto Interno Lordo (Pil) del Brasile. Ma a chi va tutta questa merce? L’Unione europea è uno dei principali partner commerciali. Secondo uno studio pubblicato dalla organizzazione Fern, il 74% della carne di manzo importata dall’Unione europea viene dal Mercosur (il mercato comune dell’America meridionale) e il Brasile rappresenta da solo il 42% del totale. Dietro alle ditte brasiliane della catena agroalimentare si nascondono grandi capitali occidentali che alimentano la produzione con prestiti e investimenti colossali. Lo studio ha mostrato che il valore totale dei prestiti e dei servizi offerti dalle banche dell’Ue alle imprese agricole brasiliane tra 2011 e 2014 ammontava a quasi un miliardo di dollari.
A bramare le terre dei popoli indigeni sono anche altre ditte europee, quelle dell’energia elettrica. La francese Engie è il primo fornitore privato di elettricità del Paese e il suo direttore in Brasile, Gil Maranhão, insieme a 40 ditte brasiliane e straniere sta già pensando ad una proposta di legge per offrire royalties alle comunità in cambio della costruzione di una centrale idroelettrica sul loro territorio: “L’obiettivo è che gli indiani possano sentirsi parte del business e utilizzano poi i soldi come gli interessa”, dice. In effetti la demarcazione di terre indigene deve essere difficile da accettare: il 13% del territorio nazionale lasciati all’ozio, che spreco commerciale! Meglio provare a trasformare quei popoli in micro-imprenditori.
Ispirazioni ecosocialiste
Nel momento in cui gli indicatori del riscaldamento climatico sono al rosso ed è già stato annunciato che nei prossimi decenni si estingueranno un milione di specie animali e vegetali, sembra che ancora non sia arrivata l’ora di fermarsi. A differenza dei concetti di ecologia liberale invocata dalla maggior parte dei governi (auto)dichiarati progressisti, i popoli indigeni non vedono la natura come semplice fornitrice di servizi, per mangiare meglio, vivere più sano, avere dei bei paesaggi. Secondo loro, gli essere umani sono parte integrante della natura e con lei costruiscono una relazione di rispetto e di uguaglianza. “Non esiste separazione tra i diritti dei popoli indigeni e i diritti della natura”. La filosofia indigena è fondata su un principio di “interrelazione tra tutte le forme di vita”. Questo lo dice un gruppo di 14 rappresentanti indigeni di tutti i continenti, dal Kenya alla Nuova Zelanda, da Taiwan al Messico, in una lettera pubblicata recentemente in solidarietà coi popoli del Brasile.
Mentre alcuni si stanno ancora svegliando e scoprendo l’importanza dell’agroecologia, per una produzione locale e sostenibile che non prenda niente dalla terra che non possa restituirle, i popoli indigeni l’avevano già capito tanti secoli fa. Chissà che non sia arrivata l’ora di riconoscere finalmente il valore incommensurabile di questi saperi e di far sentire la voce indigena che sta dentro di noi.
Florence Poznanski
Attivista in Brasile e politica per France Insoumise
Mondo
Brasile, la guerra di Bolsonaro agli indigeni. Le loro terre fanno gola ai grandi capitali occidentali
“Perché gli indiani non possono lavorare come tutti gli altri? Perché possono godersi la vita con i soldi delle mie tasse? Smettiamola con questa vecchia storia! Gli indiani sono dei cittadini come tutti gli altri, se vogliono avere gli stessi diritti devono sottomettersi agli stessi doveri!”. Ecco il tipo di commenti che è possibile ascoltare quando si parla dei popoli indigeni in Brasile. Nella Costituzione del 1988 post-dittatura questa popolazione, stimata intorno agli 11 milioni prima dell’invasione dei portoghesi, ora di circa 900.000 persone (lo 0,4% dei brasiliani) e composta da 305 popoli che parlano 274 lingue diverse, si è vista finalmente riconoscere la sua legittimità originaria sulle sue terre ancestrali e il diritto “alla differenza”, cioè il rispetto per la sua organizzazione sociale, le usanze, le lingue, le credenze e le tradizioni. Un diritto garantito anche dall’Organizzazione internazionale del lavoro (OIT, Convenzione 169).
Questo chiaramente non esclude gli altri diritti della Costituzione, ma sottolinea una specificità originaria. Un diritto già riconosciuto dalla Magna Charta, certo, ma che non è affatto applicato e che nei primi cento giorni del governo Bolsonaro sta per essere totalmente smantellato.
Il discorso perverso dell’integrazione
Il presidente Jair Bolsonaro è sempre stato contro i popoli indigeni, ma negli anni ha cambiato stile. Mentre vent’anni fa si rammaricava che la cavalleria brasiliana non avesse decimato tutti gli indigeni come negli Stati Uniti, durante la campagna presidenziale del 2018 ha difeso l’integrazione di quei popoli nella società brasiliana: “Molti vogliono condannarvi a rimanere isolati nelle vostre terre, come qualcosa di raro, come se fosse un parco zoologico. Ma voi non meritate questo. Siete brasiliani e avete tutto il diritto di sfruttare la vostra terra e anche di venderla, se volete”.
Questa posizione, in teoria favorevole ai diritti degli indigeni, è simile al discorso “assimilazionista” della dittatura che concepiva un unico modello culturale ed economico al quale i popoli ancestrali dovevano adeguarsi. Bolsonaro cerca di stuzzicare da una parte il sentimento di ingiustizia della popolazione precarizzata, costretta al lavoro senza fine per sopravvivere, e dall’altra gli indigeni stessi attirati dalla seduzione del profitto e dell’autonomia in spregio a una struttura culturale e storica.
Così, tra le prime misure del suo governo, Bolsonaro ha tolto agli indigeni la gestione dei confini dei loro territori per… affidarla alla lobby dei proprietari agricoli. Il Funai, il dipartimento brasiliano agli Affari indigeni, legato finora al Ministero della Giustizia, aveva la responsabilità di delimitare i confini delle terre indigene e decidere delle licenze ambientali. Queste competenze gli sono state ritirate e cedute al ministero dell’Agricoltura che è in mano al potere del latifondo. Il Funai è stato relegato al Ministero dei diritti umani della pastora evangelica Damares Alves che ha dichiarato recentemente di non volere più avere nessun dialogo con le organizzazioni non governative perché “ora l’indiano parla direttamente con noi e lavoriamo per soddisfare le sue vere necessità”. Siamo tornati indietro di un secolo, al tempo delle campagne moralistiche di evangelizzazione…
Una terra ambita da profitti internazionali
Ma questo i popoli indigeni non sono affatto disposti ad accettarlo e, alla fine di aprile, il loro annuale “Accampamento Terra Libera” ha radunato 4000 persone di 107 delegazioni. “Abbiamo resistito ai colonizzatori che ci hanno decimato, all’impero che ha voluto civilizzarci e alla dittatura che ci ha assassinati, resisteremo anche al fascismo!” ha gridato Sonia Guajajara, leader del popolo Guajajara e prima candidata indigena alla vice-presidenza del Brasile, durante la conferenza stampa di apertura dell’incontro.
Secondo il rapporto dell’organizzazione Global Witness, 57 difensori della terra e dell’ambiente sono stati assassinati in Brasile nel 2017, il più alto numero di morti registrati finora in qualsiasi paese del mondo. L’organizzazione Reporter Brasil ha annunciato che almeno 14 territori indigeni sono stati minacciati e sono senza protezione dall’inizio dell’anno. Numeri che crescono allo stesso ritmo della deforestazione che è aumentata del 54% a gennaio di quest’anno rispetto allo stesso mese del 2018 (secondo Instituto Homem e Meio Ambiente da Amazônia, Imazon).
Al centro di tutto questo, gli interessi commerciali dell’export di carne e di soia. Perché queste terre valgono oro, per chi non sa fare altro che sfruttarle. Nel 2017, l’agribusiness rappresentava il 23% del Prodotto Interno Lordo (Pil) del Brasile. Ma a chi va tutta questa merce? L’Unione europea è uno dei principali partner commerciali. Secondo uno studio pubblicato dalla organizzazione Fern, il 74% della carne di manzo importata dall’Unione europea viene dal Mercosur (il mercato comune dell’America meridionale) e il Brasile rappresenta da solo il 42% del totale. Dietro alle ditte brasiliane della catena agroalimentare si nascondono grandi capitali occidentali che alimentano la produzione con prestiti e investimenti colossali. Lo studio ha mostrato che il valore totale dei prestiti e dei servizi offerti dalle banche dell’Ue alle imprese agricole brasiliane tra 2011 e 2014 ammontava a quasi un miliardo di dollari.
A bramare le terre dei popoli indigeni sono anche altre ditte europee, quelle dell’energia elettrica. La francese Engie è il primo fornitore privato di elettricità del Paese e il suo direttore in Brasile, Gil Maranhão, insieme a 40 ditte brasiliane e straniere sta già pensando ad una proposta di legge per offrire royalties alle comunità in cambio della costruzione di una centrale idroelettrica sul loro territorio: “L’obiettivo è che gli indiani possano sentirsi parte del business e utilizzano poi i soldi come gli interessa”, dice. In effetti la demarcazione di terre indigene deve essere difficile da accettare: il 13% del territorio nazionale lasciati all’ozio, che spreco commerciale! Meglio provare a trasformare quei popoli in micro-imprenditori.
Ispirazioni ecosocialiste
Nel momento in cui gli indicatori del riscaldamento climatico sono al rosso ed è già stato annunciato che nei prossimi decenni si estingueranno un milione di specie animali e vegetali, sembra che ancora non sia arrivata l’ora di fermarsi. A differenza dei concetti di ecologia liberale invocata dalla maggior parte dei governi (auto)dichiarati progressisti, i popoli indigeni non vedono la natura come semplice fornitrice di servizi, per mangiare meglio, vivere più sano, avere dei bei paesaggi. Secondo loro, gli essere umani sono parte integrante della natura e con lei costruiscono una relazione di rispetto e di uguaglianza. “Non esiste separazione tra i diritti dei popoli indigeni e i diritti della natura”. La filosofia indigena è fondata su un principio di “interrelazione tra tutte le forme di vita”. Questo lo dice un gruppo di 14 rappresentanti indigeni di tutti i continenti, dal Kenya alla Nuova Zelanda, da Taiwan al Messico, in una lettera pubblicata recentemente in solidarietà coi popoli del Brasile.
Mentre alcuni si stanno ancora svegliando e scoprendo l’importanza dell’agroecologia, per una produzione locale e sostenibile che non prenda niente dalla terra che non possa restituirle, i popoli indigeni l’avevano già capito tanti secoli fa. Chissà che non sia arrivata l’ora di riconoscere finalmente il valore incommensurabile di questi saperi e di far sentire la voce indigena che sta dentro di noi.
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Porte girevoli, il governo congela la norma: i magistrati ai vertici dei ministeri torneranno subito in toga
Palermo, 19 feb. (Adnkronos) - Non è morta per essere caduta dal balcone, come si era appreso in un primo momento, la donna di 80 anni deceduta all'ospedale di Marsala (Trapani). Lo rendono noto i Carabinieri di Marsala (Trapani). La Procura, diretta da Fernando Asaro, ha emesso un provvedimento di fermo di indiziato di delitto nei confronti del figlio 51enne per il reato di omicidio preterintenzionale, commesso ai danni della madre convivente. "Il provvedimento, eseguito dai Carabinieri della Compagnia di Marsala, scaturisce dalle risultanze delle indagini svolte dai militari dell’Arma e coordinate dalla Procura di Marsala, in ragione del decesso della donna, ricoverata da circa tre giorni presso l’ospedale Paolo Borsellino di Marsala per un asserito avvelenamento da farmaci", spiegano i Carabinieri.
"La ricostruzione dei fatti ha permesso di comprendere che la donna sarebbe morta quale delle gravi lesioni riportate a seguito delle percosse subite dal figlio nei giorni antecedenti dal ricovero- dice l'Arma- Il provvedimento, terminato con la traduzione del 51enne presso il carcere di Trapani, sarà oggetto di convalida dal GIP del Tribunale di Marsala nei prossimi giorni. Le indagini preliminari sono in corso".
Palermo, 19 feb. (Adnkronos) - Una donna è morta precipitando dal balcone di casa. E' successo a Marsala, nel trapanese. I carabinieri hanno fermato il figlio con l'accusa di avere spinto la madre dal balcone, in via Oberdan. L'accusa è di omicidio. Sarà adesso il gip a pronunciarsi sul fermo del figlio. L'inchiesta è coordinata dal Procuratore di Marsala Fernando Asaro.
Roma, 19 feb. (Adnkronos) - "C’è una sola parola per le espressioni usate dal Presidente americano nei confronti di Zelensky. Vergogna. Profonda. Totale. Assoluta. Passeranno questi tempi bui, tornerà l’America. Sempre dalla parte dell’Ucraina". Lo scrive il senatore Pd, Filippo Sensi, sui social.
Roma, 19 feb. (Adnkronos) - “Trump ha detto, tra le altre cose, che Zelensky è un dittatore che ha voluto lui la guerra. Non una parola critica su Putin, che ha pianificato una invasione su larga scala dell’Ucraina libera e democratica, e sul fatto che la sua guerra di invasione totale sia fallita, nonostante la sproporzione delle forze in campo e nonostante gli aiuti militari da parte occidentale siano stati inviati con pesanti restrizioni. Da Trump non una parola di distinzione tra aggredito e aggressore, tra diritto internazionale e arbitrio, tra democrazia e tirannia”. Lo dichiara il deputato di +Europa Benedetto Della Vedova.
“Ci dovremo abituare al continuo tentativo di Trump di ribaltare la realtà. Ma ciò a cui non possiamo abituarci è il fatto che in Italia ci sia chi plauda alla prepotenza di Trump, condita di retorica antieuropea, anzichè condannarla. Ieri Salvini, oggi Conte. A quanto capisco, fosse per Conte, che non può intestarsi la leadership dell’opposizione, oggi l’intera Ucraina sarebbe una provincia russa, esattamente come lo è diventata la Bielorussia, e Putin sarebbe pronto a schiacciare sotto il suo tallone tirannico altri paesi, anche dell’Unione, in nome della ritorno della grande Russia. Tanto, a noi cosa importa?”, conclude.
Roma, 19 feb. (Adnkronos) - Una parlamentare Pd di lungo corso esce dall'aula esclamando: "Se non ci fosse Nordio, qualcuno lo dovrebbe inventare. Guarda, io voterei no alla mozione di sfiducia martedì...". E poi rivolta ai colleghi: "Ma avete visto le facce di quelli di Fdi? Sono sbiancati". Quello che è successo in aula oggi alla Camera al question time è che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha risposto alla domanda di Pd e Iv sulla quale, ieri, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai Servizi, Alfredo Mantovano, aveva spiegato che non era possibile rispondere in aula in quanto informazione 'classificata'. Insomma, roba da Copasir. Non da riunione dell'aula, trasmessa in diretta.
Un corto circuito di fronte a cui le opposizioni incalzano parlando di "governo allo sbando", di "situazione fuori controllo". "Ma nelle mani di chi siamo? Siamo nelle mani di nessuno. Ieri con un atto gravissimo il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Mantovano ha secretato, oggi lei ministro Nordio viene in aula e spiattella tutto. Ma non vi siete parlati?", sbotta in aula Davide Faraone di Iv.
La domanda in questione era se la polizia penitenziaria avesse o meno in uso lo spyware di Paragon. E il ministro Nordio - "a braccio", sottolineano dal Pd - ha risposto che no, "la polizia penitenziaria non ha mai usato quel sistema". Commenta Matteo Renzi: "Oggi Nordio ha messo molto in difficoltà Mantovano: ecco perché Mantovano non voleva che Nordio rispondesse in Aula", scrive sui social. Resta il fatto, aggiunge il leader di Iv, che sono state spiati cittadini - tra cui il direttore di Fanpage, Francesco Cancellato, e Luca Casarini - sono stati "intercettati in modo illegale: chi è stato?", chiede Renzi annunciando di voler andare fino in fondo alla vicenda: "Noi chiederemo accesso agli atti sulle spese per intercettazione di tutte le Procure della Repubblica. E non ci fermiamo".
Elly Schlein chiama in causa la premier Giorgia Meloni che "ormai si è data alla latitanza": dopo la vicenda Almasri, "ora il governo tenta di squagliarsela anche sul caso Paragon". Sottolinea la segretaria del Pd: "Sappiamo che giornalisti e attivisti italiani sono stati spiati con il spyware Graphite, utilizzato esclusivamente da organi dello stato. È preciso dovere del governo fare chiarezza e dirci chi spiava queste persone e per quale motivo. Cosa sta nascondendo il governo Meloni? Il Paese si merita risposte e il luogo dove fornirle è il Parlamento".
Anche Riccardo Magi si rivolge a Meloni: "Sul caso Paragon il Governo è in cortocircuito totale. Ieri le informazioni erano secretate, oggi Nordio cambia idea e risponde. Nel frattempo, resta il mistero totale su chi ha utilizzato lo spyware di Paragon per intercettare persino i giornalisti. Giorgia Meloni non ha più alibi: deve venire con urgenza in Parlamento e spiegare se in questa vicenda c'è un coinvolgimento di apparati dello Stato e quali, eventualmente, quelli coinvolti". Mentre Andrea Orlando fa notare un'altra voce 'mancante': "Perché in tutte queste ore il responsabile della struttura del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, che ha la responsabilità sulla polizia penitenziaria, non ha ancora detto una parola? Immaginiamo che se domani mattina la Polizia di Stato o i Carabinieri avessero intercettato in maniera illegale, o se ci fosse questo sospetto, il Comandante generale dei Carabinieri o il Capo della Polizia direbbero che è vero o che non è vero o che stanno indagando".
Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, poi, aggiungono anche un altro tassello. "Abbiamo un sacco di interrogativi e il governo continua a non rispondere. E ci siamo posti anche questa domanda: la sera prima che Casarini" scoprisse lo spyware nel suo telefono, "io ero a cena con Luca Casarini e c'erano anche altri parlamentari della Repubblica: mi hanno osservato? Mi hanno spiato?".
Roma, 19 feb. (Adnkronos) - Si avvicina l’appuntamento con l’Italian Investment Council by Remind, la piattaforma di dialogo che riunisce istituzioni nazionali, internazionali e Locali, insieme a imprenditori, manager, esperti e professionisti, per affrontare le sfide e cogliere le opportunità di sviluppo per la Nazione. L’incontro, organizzato da Remind (Associazione delle Buone Pratiche dei Settori Produttivi), si terrà il prossimo 25 febbraio a Palazzo Ferrajoli e vedrà la partecipazione di figure di rilievo del panorama istituzionale, economico, industriale con l’obiettivo di delineare strategie efficaci per la crescita sostenibile dell’Italia, un’agenda di rilievo per lo sviluppo della Nazione.
L’iniziativa si propone come uno spazio di confronto tra pubblico e privato, volto a promuovere politiche industriali sugli investimenti e a valorizzare le buone pratiche italiane in Europa e nel mondo. L’IIC verrà aperto dai saluti istituzionali di Antonio Tajani, Vicepresidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri, mentre tra i keynote speaker e i relatori attesi figurano Antonella Sberna, Vicepresidente del Parlamento Europeo, Gelsomina Vigliotti, Vicepresidente della Banca Europea degli Investimenti, Adolfo Urso, Ministro delle Imprese e del Made in Italy, Maria Teresa Bellucci, Viceministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Vannia Gava, Viceministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, Edoardo Rixi, Lucia Albano Sottosegretario dell’Economia e delle Finanze, Viceministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Alessandro Morelli, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – DIPE, Nicola Procaccini Parlamentare Europeo, Renato Loiero, Consigliere per le Politiche di Bilancio del Presidente del Consiglio, Paolo Grasso, Capo di Gabinetto del Vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini, Serafino Sorrenti Chief Information Officer Presidenza del Consiglio, Ferruccio Ferranti, Presidente Mediocredito Centrale, Stefano Pontecorvo, Presidente Leonardo e Vincenzo Sanasi d’Arpe, Alessandro Moricca Amministratore Unico Pagopa, Amministratore Delegato Consap, Giuseppe Romano Coordinatore Zes Unica, Simona Camerano Responsabile Scenari Economici Cdp, Virgilio Pomponi Vice Capo di Gabinetto Ministero dell’Economia e delle Finanze, Fabrizio Curcio Commissario Straordinario per la Ricostruzione Emilia Romagna, Toscana e Marche, Lamberto Giannini Prefetto di Roma, Pierluigi Biondi Sindaco l’Aquila, Alessandro Dagnino Assessore all’Economia Regione Sicilia, Marco Nardini Cfo Corporate Service GreenIt, Salvatore Corroppolo Direttore Affari Generali Dipartimento Pnrr del Mase e Don Antonio Coluccia.
Nel corso dell'iniziativa ci sarà un keynote speech di Dario Lo Bosco Presidente Rfi - Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane sull’innovazione e la sostenibilità delle infrastrutture e della mobilità.
I temi in discussione spazieranno dalle politiche europee per la crescita economica, alla sicurezza e difesa come pilastri dello sviluppo territoriale, fino alle nuove sfide legate alla transizione energetica, all’innovazione tecnologica ai trasporti sostenibili. Un elemento centrale dell’Italian Investment Council sarà il rafforzamento della collaborazione tra settore pubblico e privato, fondamentale per sviluppare strategie di investimento efficaci e sostenibili. In questa prospettiva, le buone pratiche dei settori produttivi rappresentano un modello di riferimento per la crescita economica dell’Italia con un focus di approfondimento sugli scenari economici da parte di Marco Daviddi (Ey), le testimonianze imprenditoriali sulla rinascita del mezzogiorno a cura di Fabrizio Marchetti (B21) e Gabriele Scicolone (Artelia Italia) e sull’immobiliare allargato con un intervento di Massimiliano Pierini (Rx Italy) e di Luca Dal Fabbro (Iren).
L’evento vedrà la partecipazione di esperti e leader del mondo imprenditoriale, tra cui, Bruno Rovelli (Blackrock Italia) Ivano Ilardo (Yard Reaas), Paolo Vari (Ideare), Francesco Burrelli (Anaci), Giulio Gravina (Italpol), Massimo Ponzellini (Centro Studi Giuseppe Bono), Emiliano Boschetto (eFm), Marta Borri (Galeotti), Michele Stella (Polis Sgr), Giorgio Pieralli (Zurich Group) che porteranno la loro esperienza su innovazione, competitività e sostenibilità nei rispettivi ambiti. Il dialogo tra istituzioni e imprese consentirà di individuare percorsi condivisi per rendere l’Italia più attrattiva per gli investitori, valorizzando al contempo le eccellenze nazionali.
Sottolineando l’importanza di creare un ambiente favorevole agli investimenti, il presidente di Remind e promotore dell’Italian Investment Council, Paolo Crisafi, ha dichiarato: “L’Italia ha un potenziale straordinario che deve essere tutelato e promosso. Stiamo collaborando, Istituzioni e Settori Produttivi, affinché la nostra Nazione diventi sempre più attrattiva per gli investitori, senza però snaturare la nostra identità economica e culturale. L’obiettivo è coniugare sviluppo e tradizione, facendo leva sulle eccellenze del Made in Italy per rilanciare la nostra economia in un’ottica di crescita sostenibile e duratura.”
Roma, 19 feb. (Adnkronos) - "L'approccio imperiale di Donald Trump al negoziato per la pace in Ucraina - che prevederebbe che il 50% delle risorse e delle infrastrutture di Kiev vada agli Stati Uniti, oltre al diritto di prelazione per l’acquisto di minerali esportabili e per la concessione di tutte le future licenze - pone in secondo piano la libertà e la democrazia per l'Ucraina e con esse l'esigenza di sicurezza dell'Europa intera. A noi pare inaccettabile: stiamo con Kiev per i valori che il Presidente Mattarella ha ricordato e per cui è stato attaccato dal Cremlino”. Lo afferma il segretario di +Europa, Riccardo Magi.
“Il vicepremier Salvini, invece che occuparsi di treni, ha fatto sapere che sta con l’invasore russo. A questo punto, non sarebbe il caso che Meloni venisse in Parlamento a rendere nota la sua posizione sul piano Trump, aggiornare le Camere sugli ultimi sviluppi, dando vita a un dibattito parlamentare sulla questione ucraina, fondamentale per il futuro dell’Italia e dell’Europa? Almeno daremmo il segnale di essere ancora in una democrazia parlamentare, cosa non scontata nemmeno più in Europa”, conclude Magi.