“Perché gli indiani non possono lavorare come tutti gli altri? Perché possono godersi la vita con i soldi delle mie tasse? Smettiamola con questa vecchia storia! Gli indiani sono dei cittadini come tutti gli altri, se vogliono avere gli stessi diritti devono sottomettersi agli stessi doveri!”. Ecco il tipo di commenti che è possibile ascoltare quando si parla dei popoli indigeni in Brasile. Nella Costituzione del 1988 post-dittatura questa popolazione, stimata intorno agli 11 milioni prima dell’invasione dei portoghesi, ora di circa 900.000 persone (lo 0,4% dei brasiliani) e composta da 305 popoli che parlano 274 lingue diverse, si è vista finalmente riconoscere la sua legittimità originaria sulle sue terre ancestrali e il diritto “alla differenza”, cioè il rispetto per la sua organizzazione sociale, le usanze, le lingue, le credenze e le tradizioni. Un diritto garantito anche dall’Organizzazione internazionale del lavoro (OIT, Convenzione 169).

Questo chiaramente non esclude gli altri diritti della Costituzione, ma sottolinea una specificità originaria. Un diritto già riconosciuto dalla Magna Charta, certo, ma che non è affatto applicato e che nei primi cento giorni del governo Bolsonaro sta per essere totalmente smantellato.

Il discorso perverso dell’integrazione

Il presidente Jair Bolsonaro è sempre stato contro i popoli indigeni, ma negli anni ha cambiato stile. Mentre vent’anni fa si rammaricava che la cavalleria brasiliana non avesse decimato tutti gli indigeni come negli Stati Uniti, durante la campagna presidenziale del 2018 ha difeso l’integrazione di quei popoli nella società brasiliana: “Molti vogliono condannarvi a rimanere isolati nelle vostre terre, come qualcosa di raro, come se fosse un parco zoologico. Ma voi non meritate questo. Siete brasiliani e avete tutto il diritto di sfruttare la vostra terra e anche di venderla, se volete”.

Questa posizione, in teoria favorevole ai diritti degli indigeni, è simile al discorso “assimilazionista” della dittatura che concepiva un unico modello culturale ed economico al quale i popoli ancestrali dovevano adeguarsi. Bolsonaro cerca di stuzzicare da una parte il sentimento di ingiustizia della popolazione precarizzata, costretta al lavoro senza fine per sopravvivere, e dall’altra gli indigeni stessi attirati dalla seduzione del profitto e dell’autonomia in spregio a una struttura culturale e storica.

Così, tra le prime misure del suo governo, Bolsonaro ha tolto agli indigeni la gestione dei confini dei loro territori per… affidarla alla lobby dei proprietari agricoli. Il Funai, il dipartimento brasiliano agli Affari indigeni, legato finora al Ministero della Giustizia, aveva la responsabilità di delimitare i confini delle terre indigene e decidere delle licenze ambientali. Queste competenze gli sono state ritirate e cedute al ministero dell’Agricoltura che è in mano al potere del latifondo. Il Funai è stato relegato al Ministero dei diritti umani della pastora evangelica Damares Alves che ha dichiarato recentemente di non volere più avere nessun dialogo con le organizzazioni non governative perché “ora l’indiano parla direttamente con noi e lavoriamo per soddisfare le sue vere necessità”. Siamo tornati indietro di un secolo, al tempo delle campagne moralistiche di evangelizzazione

Una terra ambita da profitti internazionali

Ma questo i popoli indigeni non sono affatto disposti ad accettarlo e, alla fine di aprile, il loro annuale “Accampamento Terra Libera” ha radunato 4000 persone di 107 delegazioni. “Abbiamo resistito ai colonizzatori che ci hanno decimato, all’impero che ha voluto civilizzarci e alla dittatura che ci ha assassinati, resisteremo anche al fascismo!” ha gridato Sonia Guajajara, leader del popolo Guajajara e prima candidata indigena alla vice-presidenza del Brasile, durante la conferenza stampa di apertura dell’incontro.


Secondo il rapporto dell’organizzazione Global Witness, 57 difensori della terra e dell’ambiente sono stati assassinati in Brasile nel 2017, il più alto numero di morti registrati finora in qualsiasi paese del mondo. L’organizzazione Reporter Brasil ha annunciato che almeno 14 territori indigeni sono stati minacciati e sono senza protezione dall’inizio dell’anno. Numeri che crescono allo stesso ritmo della deforestazione che è aumentata del 54% a gennaio di quest’anno rispetto allo stesso mese del 2018 (secondo Instituto Homem e Meio Ambiente da Amazônia, Imazon).

Al centro di tutto questo, gli interessi commerciali dell’export di carne e di soia. Perché queste terre valgono oro, per chi non sa fare altro che sfruttarle. Nel 2017, l’agribusiness rappresentava il 23% del Prodotto Interno Lordo (Pil) del Brasile. Ma a chi va tutta questa merce? L’Unione europea è uno dei principali partner commerciali. Secondo uno studio pubblicato dalla organizzazione Fern, il 74% della carne di manzo importata dall’Unione europea viene dal Mercosur (il mercato comune dell’America meridionale) e il Brasile rappresenta da solo il 42% del totale. Dietro alle ditte brasiliane della catena agroalimentare si nascondono grandi capitali occidentali che alimentano la produzione con prestiti e investimenti colossali. Lo studio ha mostrato che il valore totale dei prestiti e dei servizi offerti dalle banche dell’Ue alle imprese agricole brasiliane tra 2011 e 2014 ammontava a quasi un miliardo di dollari.

A bramare le terre dei popoli indigeni sono anche altre ditte europee, quelle dell’energia elettrica. La francese Engie è il primo fornitore privato di elettricità del Paese e il suo direttore in Brasile, Gil Maranhão, insieme a 40 ditte brasiliane e straniere sta già pensando ad una proposta di legge per offrire royalties alle comunità in cambio della costruzione di una centrale idroelettrica sul loro territorio: “L’obiettivo è che gli indiani possano sentirsi parte del business e utilizzano poi i soldi come gli interessa”, dice. In effetti la demarcazione di terre indigene deve essere difficile da accettare: il 13% del territorio nazionale lasciati all’ozio, che spreco commerciale! Meglio provare a trasformare quei popoli in micro-imprenditori.

Ispirazioni ecosocialiste

Nel momento in cui gli indicatori del riscaldamento climatico sono al rosso ed è già stato annunciato che nei prossimi decenni si estingueranno un milione di specie animali e vegetali, sembra che ancora non sia arrivata l’ora di fermarsi. A differenza dei concetti di ecologia liberale invocata dalla maggior parte dei governi (auto)dichiarati progressisti, i popoli indigeni non vedono la natura come semplice fornitrice di servizi, per mangiare meglio, vivere più sano, avere dei bei paesaggi. Secondo loro, gli essere umani sono parte integrante della natura e con lei costruiscono una relazione di rispetto e di uguaglianza. “Non esiste separazione tra i diritti dei popoli indigeni e i diritti della natura”. La filosofia indigena è fondata su un principio di “interrelazione tra tutte le forme di vita”. Questo lo dice un gruppo di 14 rappresentanti indigeni di tutti i continenti, dal Kenya alla Nuova Zelanda, da Taiwan al Messico, in una lettera pubblicata recentemente in solidarietà coi popoli del Brasile.

Mentre alcuni si stanno ancora svegliando e scoprendo l’importanza dell’agroecologia, per una produzione locale e sostenibile che non prenda niente dalla terra che non possa restituirle, i popoli indigeni l’avevano già capito tanti secoli fa. Chissà che non sia arrivata l’ora di riconoscere finalmente il valore incommensurabile di questi saperi e di far sentire la voce indigena che sta dentro di noi.

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