Cinema

Festival di Cannes 2019, la poesia e il dramma del cinema che sa dire ‘io’

Come quasi sempre accade, le migliori rivelazioni del festival di Cannes non sono nei concorsi principali, ma nelle sezioni collaterali. Quello che il festival di quest’anno sta mostrando è che il cinema più vivo, quello più diretto e perforante è quello che sa dire “io”. Non è una storia nuova questa: qualcuno già parlava di una “caméra stylo” una settantina d’anni fa, cioè del modo in cui è possibile usare la macchina da presa come una penna stilografica per fare una sorta di cinema-diario. Ma con le tecnologie leggere tutto è cambiato nella fabbricazione delle immagini e nel rapporto con le immagini. Oggi prendere in mano uno smartphone per filmare la realtà intorno a noi è già una forma di dire io. Quando filmo con lo smartphone vedo con le mani, io sono le mie mani. La tecnologia leggera, che sia una telecamerina o un piccolo telefono, mi prende e mi ingloba.

Tre film di questi primi giorni di Cannes dicono io in modi diversi. Sono tre film che andrebbero visti in Italia e che difficilmente però passeranno nei circuiti normali. Il primo, forse il più esemplare, è il siriano For Sama, sorta di film-lettera indirizzato dalla sua autrice, la siriana Waad Al Kateab, alla figlia Sama, nata durante il conflitto che martoria Aleppo. Ancora studentessa, Waad aveva cominciato a riprendere tutto con il cellulare, per testimoniare le repressioni operate dalle forze di Assad. Poi, divenuta cineasta e conosciuto quello che sarebbe diventato il marito, uno dei pochi medici dell’ospedale di Aleppo a non stare dalla parte di Assad, ha visto e vissuto le tragedie di Aleppo dall’interno. L’ospedale, a volte rimediato in edifici di fortuna, accoglie decine e decine di feriti che arrivano contemporaneamente, magari per un bombardamento che ha raso al suolo qualche edificio. Molti muoiono sotto l’occhio della telecamera, altri invocano qualcosa o qualcuno, altri ancora vengono rapidamente sepolti in una fossa comune. E’ un film durissimo For Sama: un bambino viene estratto in fretta e furia con un cesareo dal corpo della madre morta sotto le bombe, non respira, sembra morto, i tentativi per animarlo sembrano inutili, il dramma si aggiunge ai tanti drammi. Infine si muove, apre la bocca, piange, è fatta. Sembra quasi impossibile parlare di poesia per un film del genere, carico di inquadrature crude di morti in diretta e di bombardamenti. Eppure certe immagini che uniscono la drammaticità di bambini morti inutilmente portati all’ospedale, con la dolcezza del padre che protegge la piccola Sama durante gli allarmi aerei costruiscono delle rime di vita di straordinaria intensità.

Anche altri due film sanno dire io in modi diversi: On va tout péter (Facciamo saltare tutto) di Lech Kowalski racconta la resistenza degli operai di una fabbrica alla chiusura e alla delocalizzazione. Come è possibile una rivoluzione in questo stato delle cose, che ci ha trasformato da cittadini a consumatori? Anche qui la camera di Kowalski si infila dappertutto, insegue Macron che tenta di calmare gli animi con aria paternalista, segue i nuovi possibili acquirenti della fabbrica, che però impongono dure condizioni, partecipa alle assemblee e alla vita degli operai. E’ uno sguardo intimo, quello di questa camera, che viola a suo modo l’intimità che si crea tra gli operai in lotta. Ma al tempo stesso è uno sguardo necessario: senza i media quelle lotte non avrebbero visibilità e quelle voci non potrebbero esistere e resistere. Dunque il problema posto da questo film, come anche da For Sama, è anche più ampio: quale ruolo hanno i media audiovisivi nelle dinamiche sociali?

Infine Etre vivant et le savoir di Alain Cavalier, documentario sulla morte per cancro dell’amica scrittrice Emmanuèle Bernheim con cui il regista stava progettando di trasformare in film un romanzo di lei dedicato al padre, paralizzato e morto di eutanasia. Nel progetto Emmanuèle sarebbe stata se stessa e lo stesso Cavalier il padre di lei. Ma il progetto rallenta perché anche Emmanuèle è colta da un tumore. Diventa dunque un film doppiamente sulla morte, quella del padre di lei e quella di lei. Come filmare la morte? Non filmarla, lasciarla nel fuori campo assoluto, nella fissità delle statuette lignee che stanno a casa di Cavalier, nelle nature morte di ortaggi e frutti, nella vita-morte delle immagini, con un piccione ferito che guarda se stesso trasformato in immagine attraverso uno schermo di computer. Eppure Emmanuèle che sta morendo nutre di vita il film: è ancora viva, basta accendere ogni mattina il computer e rivederla sorridere in una clip che sarà poi nel film. Tutto ruota sulla poesia degli accostamenti, sull’intimità delle immagini, che solo le tecnologie leggere permettono di ottenere. Come se fosse possibile accarezzare gli oggetti, dire “io” nello stesso momento in cui si tocca il “tu” che si sta perforando con lo sguardo della macchina. Stabilire un contatto ravvicinato, toccarsi, amarsi senza saperlo e forse senza volerlo.