Ci si lamenta spesso che i nostri dati personali vengono risucchiati da voraci archivi e poi utilizzati in maniera impropria.

La colpa è prevalentemente da addebitare agli stessi soggetti che si lagnano. Nessuno infatti legge l’informativa che chi raccoglie informazioni è tenuto a prospettare alle persone che (spontaneamente o, il più delle volte, inconsapevolmente) forniscono quegli elementi di conoscenza. Il saltare a piè pari quelle “avvertenze” e il sottoscrivere il proprio “consenso al trattamento” fa il gioco di chi vuole approfittarsene e magari vantare l’aver avvisato chi poi inutilmente protesta.

Cavalcare l’apatia di chi si fa fregare i dati, però, è eccessivo. Ci si trova dinanzi (scusate l’esagerazione) ad una sorta di “suicidio assistito” del diritto alla privacy di chi non si accorge delle conseguenze dell’autorizzazione incoscientemente concessa a chi vuole approfittare delle informazioni recuperate.

Un caso è sicuramente sotto gli occhi di tutti e gli aficionados dei social network sanno già a quale raccolta di informazioni si sta per fare riferimento.

Chi desidera partecipare al concorso “VinciSalvini”, strombazzato nel corso della corrente campagna elettorale, deve consegnare una serie di dati personali all’atto dell’iscrizione e in particolare – oltre ai riferimenti anagrafici – è tenuto ad indicare il numero di telefono cellulare e gli account a lui corrispondenti sui diversi social di maggior diffusione (consentendo un successivo tracciamento dell’iscritto su Facebook, Twitter e Instagram).

Il quisque de populo che intraprende questa sorta di rito di iniziazione telematica scopre – solo se è molto curioso e non meno attento – che i propri dati personali “saranno conservati per il periodo di tempo necessario per il conseguimento delle finalità per le quali sono raccolti e trattati”. Fin qui – almeno in termini di arco cronologico ammesso – tutto in regola.

Il concorso a premi (anzi “a premio” nella specifica circostanza) è destinato a concludersi il 26 maggio prossimo, che come si legge nel Regolamento è “il giorno in cui Matteo Salvini vincerà non solo in rete, ma – tutti noi auspichiamo, con il tuo aiuto – anche nelle urne delle elezioni europee!”. Chi, ostinato a voler conoscere la sorte dei propri dati continua a leggere l’informativa, apprende che – a dispetto della precisazione precedente – il tempo di conservazione si dilata “in ogni caso non oltre il 31 maggio 2020” andando a finire ben un anno dopo il tanto rimarcato dal legislatore “tempo strettamente necessario”.

Se il “per quanto tempo” della conservazione dei dati lascia perplessi anche i meno avvezzi a badare al calendario (ma non chi immagina propositi elettorali entro la scadenza del “in ogni caso”), gli appassionati di geografia non esitano a chiedersi “dove” vadano a finire gli elementi informativi indispensabili per l’iscrizione.

L’informativa affronta il tema della diffusione (trasferimento dei dati in modo indiscriminato) e della comunicazione (trasferimento mirato a soggetti identificati o identificabili). Il titolare (ovvero la Lega per Salvini Premier) garantisce in quel testo che è esclusa la diffusione a terzi o l’inoltro fuori dall’Unione Europea. Non è fatta alcuna menzione per quanto concerne il fronte della eventuale “comunicazione”. Anzi, la lettera f) dell’informativa spiega chiaramente che “il titolare dichiara che la gestione e la conservazione su server di proprietà e/o nella disponibilità del titolare medesimo e di società terze”. Queste ultime si assicura che sono o saranno nominate “responsabili del trattamento” ai sensi della normativa comunitaria in tema di privacy, così come viene data garanzia dell’adozione di misure di sicurezza conformi all’articolo 32 del Gdpr ovvero del Regolamento europeo. Purtroppo è fresco il ricordo delle incursioni dei pirati informatici in danno a partiti e movimenti politici e in particolare quello delle 70 mila mail della Lega clamorosamente scippate con un data breach che non è certo passato inosservato. Non bastasse, i più attenti lo rammentano senz’altro, nella primavera dell’anno scorso – proprio in occasione della prima edizione del “VinciSalvini” – il Garante aprì un’istruttoria a seguito dell’esposto presentato dal senatore Pd Anzaldi.

In prossimità della chiusura delle candidature a componente dell’Autorità Garante nessuno tra gli esperti potenzialmente designabili si azzarda a muovere critiche per evitare di prospettarsi come rompiscatole e come tale vedersi escluso dalla competizione per le imminenti nomine. Meglio tenere un profilo basso, tollerante, incline all’ubbidienza e alla devozione, dimenticando sostanzialmente che le Authority sono entità indipendenti.

Sono – o forse dovrebbero essere – indipendenti, visto e considerato che è la politica a scegliere i quattro “moschettieri” tenuti a duellare per la tutela della riservatezza dei dati dei cittadini.

In vista di tali nomine – pensando a “quirinarie”, “parlamentarie” o “comunarie” – si sarebbe portarti ad immaginare una consultazione popolare anche stavolta. Il solo termine “autoritarie” (casualmente specchio di troppe sensazioni odierne) fa giustamente desistere da ogni proposito.

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