“Penso a questo come alla fine della mia carriera, alla fine della mia vita”. È un Alain Delon in lacrime quello che scende dal palco di Cannes dopo aver ricevuto la Palma d’Oro alla carriera. Uno scatolino di plastica con dentro un rametto dorato che Alain osserva con malcelato distacco e una punta di malinconia. Dopo i convenevoli di rito glielo porge la figlia Anouchka, nata dalla relazione in tarda età con la top model olandese Rosalie van Breemen. L’abbraccio tra i due è intenso e caloroso. Probabile che Delon sul palco della sala Bunuel abbia rivisto per un attimo in successione i frammenti di una vita dedicata al cinematografo (oltre 80 film più una casa di produzione propria), una vita – come dice lui – salvata dal cinema. Il delegato generale del festival, Thierry Fremaux, l’ha presentato invitando i presenti a non usare lo smartphone per fare foto ma di usare le mani per applaudirlo. E Delon, che un’ovazione se l’è presa all’entrata e un lungo commosso applauso alla fine (dieci minuti no, ma tanti minuti sì), ha freddato tutti con una battuta crepuscolare: “Non dirgli di gettare il telefono, Thierry, molti di loro hanno il mio numero”.
Solo chi ha compreso negli anni la sofferenza interiore dietro quegli occhi glaciali può capire la disillusione di un 83enne risarcito fuori tempo massimo. L’hanno dipinto come una specie di orrido nazista, manesco e volgare, ma Delon ancora una volta ha mostrato la tenera incertezza di una star per caso. “Quando sono tornato dall’Indocina dove ero militare non sapevo cosa avrei fatto nella vita – ha spiegato durante la masterclass che l’ha visto protagonista – sono state le donne che mi hanno amato ad avermi portato a fare questa professione. Se non avessi incontrato le donne che ho incontrato sarei morto molto tempo fa”. Si chiamava Brigitte Auber, ha ricordato Delon, la ragazza che lo portò a farsi un giro sul red carpet della Croisette proprio appena tornato dall’Asia, quando lui nemmeno sapeva cosa fosse Cannes.
La carrellata di film e di titoli che vengono rievocati fanno capire che però Cannes negli anni successivi si è sbagliata assai a non chiamarlo lì prima. Certo ne Il Gattopardo, che fu Palma d’Oro come miglior film, Alain era ancora un tantino fanciullo, ma il Frank Costello di Melville, per dire uno che ha scavato davvero dentro a questo “mostro sacro” del cinema mondiale, avrebbe mangiato in testa a tante mezze cartucce d’attori che ogni tanto Cannes ha impalmato. Poi certo, Delon non è tipo da salamelecchi: “Negli anni settanta potevo fare tutti i film che volevo”. O ancora: “Tutti i film con la parola “flic” nel titolo li ho interpretati perché il pubblico si aspettava questo da me”. E hanno un bel dal prendere in giro i giornalisti di Liberation ricordando del suo manifesto machismo finito sotto accusa negli ultimi giorni. “Le donne mi hanno reso quello che sono. Alcune hanno combattuto per farmi fare dei film. Ve l’ho detto, non ero cattivo e non ho chiamato la polizia quando diverse di loro mi volevano saltare addosso”. Il momento forse più toccante, però, dopo i tanti aneddoti (tanti li potete ricordare in questo ritratto) è stato quando gli è stata mostrata una scena di Rocco e i suoi fratelli. La sequenza con Annie Girardot sul Duomo di Milano. Delon si è commosso: “Vedere Annie così magnifica mi fa male. Torno a casa, non so venuto qui per piangere”.