Ho visto qualche giorno fa un fermo immagine dei lavori in corso allo stadio San Paolo: si cambiavano i seggiolini. Al posto di un colore unico un arcobaleno di tonalità, prevalentemente il bianco che, disposto a scacchiera, riusciva a rendere più allegra una scena triste. In previsione dell’assenza dei corpi dei tifosi, che rifiutano di incontrarsi nel luogo in cui dovrebbero, l’architettura di interni ha previsto il loro parziale occultamento attraverso una foggia di colori che dovrebbero rendere meno deprimente gli spalti vuoti.
Cos’è lo stadio se non un’agorà? E cosa diviene una piazza senza gente, cos’è il tifo senza tifosi, cosa lo stadio, luogo dello spettacolo della vigoria fisica, ventidue in campo a contendersi un pallone con i piedi, lasciando solo a due di essi la possibilità di usare le mani?
Ogni spazio, ogni luogo aperto risulta oramai superato dalla tecnologia che ci rende vicini stando lontani, che ci unisce nella solitudine, che ci lega slegandoci. Nell’ossimoro, nel contrasto degli opposti, la vita prosegue e persino il Parlamento lo documenta. Questo governo non è per caso una alleanza tra due formazioni così tanto diverse che hanno finito per odiarsi? E non è che domenica prossima gli elettori di questi due movimenti sceglieranno l’uno in odio all’altro? E si conteranno nelle urne come due squadre avversarie contano i gol fatti e quelli subiti?
Così, tornando al pallone, allo stadio – tolti i violenti – chi andrà?
Uno stadio senza spettatori è un non senso. Si possono anche colorare i seggiolini, oppure costruire anfiteatri piccini piccini, ma si avrà sempre il sospetto (o il timore?) che domani diverranno troppi anche quei posti a sedere disposti per pochi intimi. La progressione delle solitudini è la nostra malattia, è il frutto avvelenato, l’effetto collaterale della tecnologia.
Più soli, e dunque un poco più tristi. E perciò un poco più cattivi.