“Una disgrazia imprevedibile e inevitabile, purtroppo”. Due aggettivi in un’intervista a La Repubblica racchiudono il giudizio sulla complessa vicenda del crollo del Ponte Morandi. E’ un verdetto di piena assoluzione quello emesso da Luciano Benetton su Autostrade per l’Italia, gestore del tratto della A10 venuta giù a Genova il 14 agosto, controllata attraverso il gigante Atlantia dalla famiglia che dà il nome al colosso manufatturiero di Ponzano Veneto. Nessun risparmio sulla sicurezza, zero avvisaglie circa le criticità che affliggevano la struttura e totale buona fede dei manager, assicura l’inventore degli United Colors. Una sentenza che però scricchiola alla luce di quello che dicono le relazioni ufficiali.
1) “Nessun imprenditore può immaginare di risparmiare sulla manutenzione dei ponti e delle autostrade”, che insieme agli “investimenti sulle strade sono obblighi imposti dal contesto prima che una libera opzione intellettuale”.
Secondo i tecnici del ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture, Autostrade ha speso meno di chi c’era prima. Nella relazione sul crollo del ponte pubblicata il 25 settembre 2018, contestata in vari punti da Aspi, la Commissione Ispettiva del Mit riporta “i costi dei lavori per interventi strutturali sull’intero viadotto Polcevera (…) dal 1982 a oggi, sulla base dei dati forniti a questa commissione da Aspi”. “All’interno dell’importo totale dei lavori strutturali, pari a 24.610.500 euro, si nota che il 98 per cento dell’importo è stato speso prima del 1999 (anno della privatizzazione di Autostrade); dopo il 1999 è stato speso solo il 2 per cento di questo importo”. Nel dettaglio “l’investimento medio annuo è stato pari a 1,3 milioni di euro nel periodo 1982-1999”. Quindi “l’investimento medio annuo è stato invece pari a 23mila euro circa nel periodo 1999-agosto 2018″. Da quando, cioè, il gestore è di proprietà dei Benetton.
2) Eppure il patron è sicuro: risparmiare, spiega, “non sarebbe solo un delitto da irresponsabili, sarebbe anche un errore da stupidi”. Dato che “l’etica della responsabilità” e “il rispetto delle regole per un imprenditore non sono facoltative”.
Sarà, ma le misure adottate da Autostrade per la prevenzione del viadotto Polcevera, sostengono i commissari nelle 250 pagine, “erano inappropriate e insufficienti considerata la gravità del problema”. Gli esperti (tre ingegneri e un consigliere della Corte dei conti) guidati dall’ingegner Alfredo Mortellaro sottolineano che la concessionaria “era in grado di cogliere qualitativamente l’evoluzione temporale dei problemi di ammaloramento, ma con enormi incertezze. Tale evoluzione, ormai già da anni, restituiva un quadro preoccupante, e incognito quantitativamente, per quanto concerne la sicurezza strutturale rispetto al crollo”. Da qui “emerge una irresponsabile minimizzazione dei necessari interventi, perfino anche di manutenzione ordinaria“.
3) “Come si possono gestire le autostrade risparmiando sulla sicurezza?”, domanda quindi in via retorica l’imprenditore.
Secondo i tecnici del Mit Aspi non solo ha speso poco, ma ha fatto ricadere sugli utenti parte dei costi delle mancate opere di mantenimento e aumentato così i guadagni: “Non fare oggi semplice manutenzione ordinaria significa voler fare domani molta manutenzione straordinaria a costi certamente più alti, con speculare maggiore remuneratività, passando gli interventi dal quadro di previsione F1 al quadro F2 ovvero al paragrafo C2 tratto 2 previsto nel piano economico finanziario”. Il che, tradotto dal contrattualese, significa passare da lavori a carico del concessionario a interventi straordinari scaricati sui pedaggi pagati dagli automobilisti. “Ne discende, come logico corollario, una massimizzazione dei profitti utilizzando a proprio esclusivo tornaconto le clausole contrattuali”.
4) “Certamente non si sapeva che era a rischio di crollo“, prosegue Benetton.
Autostrade forse non lo sapeva perché, spiegano i tecnici, i controlli erano fatti male: “La procedura di controllo della sicurezza strutturale delle opere d’arte documentata da Autostrade per l’Italia (Aspi), basata sulle ispezioni, è stata in passato, ed è tuttora inadatta al fine di prevenire i crolli e del tutto insufficiente per la stima della sicurezza nei confronti del collasso”.
Per il patron l’unico problema era che il ponte “era però sovraccarico“. Non era l’unica criticità: i suoi numerosi problemi erano noti da anni a tutti gli attori coinvolti. La struttura era caratterizzata da “un intenso degrado“, si leggeva già nel maggio 2011 in una relazione redatta dalla stessa Autostrade. Tra il 2014 e il 2015 alcuni studi interni segnalavano criticità sulle pile 9 (quella crollata) e 10. La società ne commissionava allora uno al Cesi, che evidenziava “asimmetrie di comportamento degli stralli“, e nel 2017 uno al politecnico di Milano. Entrambi sottolineavano la necessità di monitorare il ponte e suggerivano di progettare un sistema di sensori che vegliassero giorno e notte sulla struttura, ma Aspi declinava l’invito.
Il progetto di rinforzo veniva presentato al Mit solo a fine 2017 e a febbraio 2018 il comitato tecnico dava l’ok: il contestuale report del ministero parlava di “un lento trend di degrado dei cavi costituenti gli stralli (riduzione d’area totale dei cavi del 10-20%)”. Il 3 maggio 2108 Aspi pubblicava il bando di gara da 20 milioni per un progetto di ‘retrofitting‘ degli stralli 9 (il primo a cedere) e 10. Ma il 14 agosto il ponte veniva giù.
5) Difficile ipotizzare che il patron non abbia letto le relazioni dei tecnici. Nonostante tutto afferma sicuro: “Sono sicuro della buona fede dei manager di Autostrade”.
I magistrati, invece, qualche dubbio ce l’hanno, e non solo nella vicenda Morandi, visto che in un filone parallelo dell’inchiesta principale a fine marzo hanno inviato un avviso di garanzia a Michele Donferri Mitelli, fino a poche settimane fa responsabile nazionale delle manutenzioni di Autostrade, e ad Antonino Galatà, ad di Spea Engineering, la società di Atlantia che si occupa dei monitoraggi delle infrastrutture del gruppo e della prevenzione rischi. Per i due l’accusa è di aver partecipato alla falsificazione di alcuni report sullo stato di salute di altri 5 viadotti: 3 in Liguria, uno in Puglia e uno in Abruzzo. Interrogati, i tecnici di Spea avevano raccontato che i report “talvolta erano stati cambiati dopo le riunioni con il supervisore Maurizio Ceneri (ingegnere, indagato anche nell’inchiesta principale, ndr) mentre in altri casi era stato Ceneri stesso a modificarli senza consultarsi con gli altri”.
L’11 gennaio il Tribunale di Avellino si è pronunciato in primo grado sull’incidente del bus che il 28 luglio 2013 precipitò da un viadotto dell’A16 causando la morte di 40 persone. I giudici hanno assolto l’amministratore delegato Giovanni Castellucci, ma hanno condannato tre attuali e tre ex dirigenti di Autostrade a pene tra cinque e sei anni.
Dopo la tragedia “siamo stati additati improvvisamente come una famiglia di avidi speculatori”, è il rammarico che pervade l’intero colloquio, in cui la penna del giornalista pare meno affilata che in altre occasioni. “Il ponte era monitorato, sottoposto a lavori continui”, asserisce l’intervistatore come fosse l’intervistato. I dati di cui sopra sono pubblici, di dominio pubblico è anche l’inchiesta con cui la procura di Genova sta cercando di ricostruire le responsabilità alla base della tragedia. Ma nelle domande non vi si fa alcun cenno. Sarà la stessa indagine, che vede indagate 74 persone tra cui Castellucci e diversi dirigenti apicali di Aspi e di Spea, a stabilire se la disgrazia era davvero così “imprevedibile e inevitabile”.
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