A scoprire le lettere sospette – che erano esplosive e che hanno portato a tre arresti – contro due magistrati era stata una dipendente del Palazzo di giustizia di Torino che ogni giorno distribuisce la posta al sesto piano, dove ci sono alcuni uffici della procura. La mattina del 7 giugno 2017 aveva notato che due buste erano strane e le ha fatte passare nuovamente allo scanner all’ingresso. Dagli schermi gli addetti alla sicurezza avevano visto che all’interno c’erano dei fili elettrici sospetti. Erano inneschi a strappo che avrebbero potuto esplodere all’apertura della busta. Nonostante i controlli, quei “plichi” erano arrivati a un passo degli obiettivi, due sostituti procuratori impegnati in indagini sulla galassia anarchica.
Erano Antonio Rinaudo e Roberto Sparagna. Il primo, 70 anni, è andato in pensione da alcuni mesi. È diventato magistrato il 25 maggio 1977, durante gli anni di Piombo, quando Torino era una delle città più colpite dal terrorismo rosso. Nei primi anni Ottanta ha fatto parte del pool di giudici istruttori del processo alle Brigate Rosse. Poi si è occupato di criminalità organizzata e negli ultimi anni, in coppia con il collega Andrea Padalino, ha condotto molti processi contro il movimento No Tav, come quello per il blitz al cantiere avvenuto il 14 maggio 2013 per il quale alcuni anarchici furono arrestati e processati con l’accusa di attentato con finalità terroristiche, da cui vennero prosciolti.
Anche il secondo, Sparagna, si è occupato di anarchici, ma quelli di una frangia più violenta. Ci è arrivato dopo dieci anni alla Direzione distrettuale antimafia, dove dal 2007 ha raccolto le confessioni dei pentiti che gli hanno permesso di ricostruire la struttura della ‘ndrangheta nella provincia di Torino smantellata con l’inchiesta “Minotauro”. Il pm ha applicato quel metodo di lavoro all’inchiesta della Digos della Questura di Torino su una serie di esplosioni avvenute a Torino e in altri città dal 2003 al 2016 contro politici, forze dell’ordine e giornalisti: ricollegando episodi, mettendo insieme gli atti di altre indagini, studiando gli scritti degli anarchici stessi, Sparagna ha ricostruito la struttura dell’anarco-insurrezionalismo in Italia, le sue articolazioni e i suoi legami con una “casa madre” e ne è venuto fuori uno schema alla cui estremità figura la frangia violenta, la Federazione anarchica informale (Fai), formata da molte sigle più piccole e collegata al Fronte rivoluzionario internazionale (Fri).
Era l’inchiesta “Scripta manent”, che ha coinvolto anche due nomi già noti alle cronache, quelli di Nicola Gay e Alfredo Cospito, autori di un attentato a Roberto Adinolfi, manager dell’Ansaldo gambizzato a Genova il 7 maggio 2012. All’alba del 6 settembre 2016 gli agenti della Digos hanno arrestato sette persone accusate di associazione eversiva. Da Sparagna, già sotto scorta da anni, è diventato l’obiettivo degli anarchici, dei loro proclami e delle loro buste esplosive. Nel frattempo il processo è andato avanti lo stesso. Un giovane anarchico ha scelto il rito abbreviato ed è stato condannato e poi, il 24 aprile scorso, ci sono state altre cinque condanne e diciotto assoluzioni. “Vorrei ricordare al miserabile sostituto procuratore che nonostante le pene elevate che hai ottenuto contro i nostri compagni, fratelli e sorelle Alfredo, Nicola, Anna, Marco e Alessandro, hai vinto una piccola battaglia – scriveva Gioacchino Somma, uno degli assolti, su anarhija.info -: la guerra contro lo Stato ed i miserabili come te sarà lunga”. Involontariamente Somma riconosce a Sparagna dei meriti: “Dopo aver traslocato dalla procura antimafia a quella per terrorismo è riuscito ad arrivare dove per decine di anni altri miserabili dei suoi colleghi hanno fallito: associazione sovversiva con finalità di terrorismo”.
Quell’indagine ha già fatto scuola. Riprende una parte di quella struttura l’inchiesta “Scintilla” che il 7 febbraio ha portato in carcere sei anarchici insurrezionalisti dell’Asilo occupato, sgomberato lo stesso giorno. Da allora a Torino sono aumentate le proteste degli antagonisti e la sindaca Chiara Appendino ha ricevuto minacce, buste esplosive e proiettili. Quest’ultima indagine, condotta dalla Digos e coordinata dal sostituto procuratore Manuela Pedrotta, riguarda l’invio di plichi esplosivi ad aziende e istituzioni nell’ambito di una campagna contro i centri di identificazione ed espulsione e contro le politiche dei governi sull’immigrazione. La procura sostiene che anche questa fosse un’associazione eversiva, ma il Tribunale del Riesame ha già bocciato l’ipotesi, ragione per cui la procura ha fatto ricorso in Cassazione.