Siamo alla vigila di un nuovo ordine finanziario globale di impronta cinese, con un maggiore e più selettivo controllo sui movimenti di capitali? È la domanda finale a cui prova a rispondere il documentatissimo libro di David Lubin Dance of the trillions. L’autore è responsabile della ricerca economica sui paesi emergenti di Citi, e il saggio ripercorre la storia dei controversi effetti che la piena mobilità di capitali ha avuto sui paesi in via di sviluppo nell’ultimo mezzo secolo. Si tratta di un contributo importante e prezioso, in un’epoca di diffusi ripensamenti sulla globalizzazione e di “limbo” per quanto riguarda le politiche economiche. La stagione di adesione quasi incondizionata al dogma neo liberista implementato nella pratica da Margareth Thatcher e Ronald Reagan sembra al tramonto ma ancora stenta a prendere forma una nuova visione sostitutiva. Molto probabilmente, argomenta Lubin, arriverà da Oriente.

Le 130 pagine del libro si aprono con il racconto di quella che fu la prima grande ondata di afflusso di capitali nei mercati emergenti. Negli anni ’70 i paesi produttori di petrolio iniziarono ad accumulare immense ricchezze nelle banche occidentali. La corsa delle quotazioni del greggio aveva spinto a livelli stratosferici gli avanzi di bilancio dei paesi Opec. Nel 1974 l’Arabia Saudita raggiunse un surplus pari al 51% del suo Pil. Negli Stati Uniti però l’inflazione era alta e i tassi relativamente bassi, addirittura negativi in termini reali. Il denaro proveniente dai produttori di petrolio venne quindi investiti in larga parte in titoli di Stato dei paesi emergenti, dove i rendimenti erano maggiori e la crescita economica sostenuta. Brasile, Argentina e altri sperimentarono così la pericolosa seduzione del “plata dulce”, il denaro facile che affluivano nelle casse dei governi finanziando spese pubbliche allegre. Nel 1979 però tutto cambia. La Federal Reserve, guidata da Paul Volcker, avvia una politica di vigorosa lotta all’inflazione, i tassi Usa salgono, i rendimenti tornano positivi e i soldi “tornano a casa”, interrompendo il flusso verso i mercati emergenti provocando forti sofferenze ai bilanci pubblici locali. Fu la prima testimonianza del fortissimo influsso che la Federal Reserve aveva, e continua ad avere, sui mercati emergenti. La “tirannia della Fed”, che sovraintende al sistema dollaro, mostrerà i suoi effetti in numerose altre occasioni, a cominciare dalla crisi delle “tigri asiatiche” nella metà degli anni ’90 e nelle crisi di Brasile e Argentina agli inizi degli anni 2000.

Alla sbornia di capitali degli anni 70 segue così un decennio di crisi. In America Latina sarà ricordato come la decade perduta con il reddito pro capite che, tra il 1980 e il 1990, crolla dal 40% al 28% di quello delle economia avanzate. Tra il 1976 e il 1982, ricorda Lubin, nei 14 più grandi mercati emergenti affluirono 83 miliardi di dollari, nei 7 anni successivi fuoriuscirono 134 miliardi. Ad essere colpiti sono anche paesi europei come Polonia prima e Romania poi. Nel 1989 Nicolae Ceausescu dichiarava che il paese era riuscito finalmente a ripagare il suo debito estero di 10 miliardi di dollari, “grazie al lavoro del nostro popolo”, eufemismo per descrivere feroci privazioni inflitte alla popolazione, senza riscaldamento e a corto di beni di prima necessità. L’ipotesi alternativa di una ristrutturazione del debito era stata respinta dalle banche creditrici. Grecia 2009, vent’anni prima.

L’Unione Sovietica collassa, il muro di Berlino crolla, per il denaro non esistono più confini. Il genio della globalizzazione è ormai uscito dalla lampada. Prima il flusso di capitali era principalmente da governi a governi attraverso l’hub delle banche. Ora a muoversi sono soprattutto soldi privati. Ancora di più, ancora più affamati di rendimenti, ancora più veloci. Denaro bollente. E si scotteranno in tanti: Messico, Thailandia, Russia, Turchia, Brasile, Corea, Indonesia, Filippine, Indonesia per citare solo le crisi più gravi. Colpiti direttamente e nei loro sistemi bancari. Dopo la crisi del 1997 l’Indonesia spenderà una cifra pari al 57% del suo pil per salvare le proprie banche. La Thailandia il 44% del Pil, la Corea il 32%. Nel 2001 la Turchia staccherà un assegno per le sue banche pari al 32% del suo Pil.

I paesi coinvolti iniziano a imparare la lezione: le loro economie non sono adeguatamente equipaggiate per far fronte alla volatilità dei flussi di capitali internazionali. Devono imparare a proteggersi, a “wrapping up warmly”, coprirsi bene per stare al caldo anche nel mezzo delle tempeste finanziarie. Il punto di maggiore vulnerabilità sono bilanci pubblici traballanti e riserve di valuta insufficienti. In queste condizioni la combinazione tra tassi di cambio fissi, o in qualche modo ancorati al dollaro, e la totale mobilità di capitale si dimostra tossica. Studi dettagliati non rivelano nessuna particolare relazione positiva tra integrazione nei mercati finanziari internazionale e tassi di crescita dell’economia. Si corre ai ripari, le riserve in valuta estera dei paesi in via di sviluppo, esclusa la Cina, passano dai 325 miliardi di dollari del 1997 ai 2mila 500 miliardi del 2017, un valore pari al 350% del loro debito estero a breve scadenza. Nel 2002 il rapporto debito/pil di questi paesi era in media del 62%. Nel 2008 era sceso al 34%.

Si inizia comincia a distinguere tra diversi investimenti esteri e a filtrarli. Quelli “buoni” sono gli investimenti diretti esteri (per esempio una multinazionale che costruisce una filiale), più stabili e che portano con se tecnologie. Quelli cattivi sono gli investimenti di natura più speculativa, gli “hot money” che vanno e vengono in un batter di ciglio. Paesi come il Cile alzano barriere per filtrare i capitali in entrata, altri come la Malaysia per contenere quelli in uscita. Qui David Lubin ricorda anche l’equivoco che si è creato nel corso degli anni sul cosiddetto “Washington Consensus”. L’idea originaria era quella dell’eliminazione delle barriere per gli investimenti diretti, ma non per tutti i tipi di flussi di capitale. Sotto la pressione di banche e istituzioni finanziarie nel corso degli anni si è invece sviluppata una versione impura di questa dottrina, orientata ad una liberalizzazione totale.

Arriviamo quindi ai giorni nostri e al ruolo crescente di Pechino. Tra il 2002 e il 2011 le materie prime iniziano uno dei periodi di crescita dei prezzi più lungo della storia. Il 43% di questa produzione è assorbito dalla Cina, la cui crescita tumultuosa trascina con se molti paesi emergenti produttori di commodities rinsaldando i legami con gli Stati coinvolti. A titolo di esempio l’export del Cile verso la Cina valeva l’1% del Pil nel 2001 e l’8% nel 2011. La Cina ha sempre applicato la versione pura del “Washington Consensus”: nessuna o poche barriere per gli investimenti esteri, controlli rigidi sugli altri movimenti di capitale. Tra il 1993 e il 2005 sono affluiti nel paese investimenti stranieri pari in media al 3% del Pil cinese. Nel 2005 il 58% dell’export cinese era riconducibile a imprese a proprietà straniera. Dal 1981 ad oggi non c’è mai stato un solo anno in cui il debito in valuta estera del paese abbia superato il valore delle riserve in valuta straniera. Una garanzia di solidità. La Cina ha potuto permettersi di scegliere grazie alla disponibilità di risparmi privati domestici, contando quindi sulle proprie risorse per fornire carburante alla crescita economica. Non tutti i paesi emergenti possono fare lo stesso.

È chiaro che il “Beijing Consensus” prevede una gerarchia tra diversi tipi di capitali. Alcuni possono entrare, alcuni solo a determinate condizioni, altri no. L’altro gigante emergente, l’India, sembra sostanzialmente condividere questa impostazione. Man mano che i due paesi aumentano la loro influenza, il sistema finanziario globale prenderà la forma che essi prediligono. Esattamente come è stato per gli Usa nell’ultimo mezzo secolo. Controllare i capitali è difficile ma non impossibile. Nuove regole internazionali, una struttura simile al WTO ma destinata a regolamentare e vigilare capitali e non merci, non sono più ipotesi fantascenifiche. Il libro si chiude ricordando le parole di Keynes, pronunciate alla Camera dei Lord nel 1944 sugli accordi di Bretton Woods: “Non semplicemente per una fase di transizione, ma in modo permanente, gli accordi attribuiscono ad ogni paese membro il diritto esplicito di controllare qualsiasi movimento di capitali. Quello che prima era eresia, ora è ortodossia”. Quello che era un’eresia nel sistema finanziario disegnato dagli Stati Uniti, conclude Lubin, si appresta a diventare l’ortodossia del nuovo ordine finanziario cinese.

@maurodelcorno

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