Le polemiche anche interne ai Conservatori riguardanti il “nuovo accordo” sulla Brexit presentato da Theresa May il 21 maggio hanno convinto il governo a far slittare la data del voto, inizialmente prevista entro il 3 giugno, sulla nuova bozza definitiva per l’uscita del regno dall’Unione europea. Le proposte di compromesso non hanno convinto nessuno: né i colleghi del partito Tory, né l’opposizione Labour guidata da Jeremy Corbyn che hanno scatenato una guerra con l’intento di provocare le dimissioni della leader conservatrice. E alcuni organi di stampa britannici scrivono che la premier sarebbe addirittura disposta a rinunciare al voto sulla legge di attuazione proprio a causa dei contrasti in Parlamento. Downing Street fa sapere che la May continua a “consultarsi con i ministri” e che sta rimettendo mano al testo, un estremo tentativo di resistenza alle richieste di dimissioni che continuano a salire dall’interno del Partito Conservatore e dello stesso governo, sostengono alcuni media inglesi.
Ma la lotta interna al partito conservatore porterà a una riorganizzazione dell’esecutivo. Mercoledì il governo ha assistito a una nuova defezione, con le dimissioni della responsabile dei rapporti con il Parlamento, Andrea Leadsom, che se n’è andata in protesta dopo il nuovo piano per l’uscita dalla Ue ed è stata sostituta dal moderato Mel Stride, viceministro del Tesoro. Ma la crisi interna porterà a un rimpasto più ampio: Stride è stato a sua volta rimpiazzato nell’incarico precedente da Jesse Norman, sino a oggi sottosegretario ai Trasporti, cui subentra Michael Ellis in arrivo dal dicastero della Cultura. È poi previsto un solo ingresso dall’esterno del governo, con la nomina a nuova sottosegretaria alla Cultura della deputata Rebecca Pow, una delle figure rimaste pubblicamente leali alla premier anche in queste ultime settimane.
Tutto nel giorno delle urne aperte per votare alle Europee, mentre il Brexit party di Nigel Farage viene dato al 34%, in una tornata elettorale a cui dopo il referendum di quasi tre anni fa nessuno avrebbe creduto. E a chiudere il cortocircuito del (non) divorzio di Londra da Bruxelles c’è anche l’annuncio del Times secondo cui la premier Theresa May, mentre il Parlamento prosegue in uno stallo senza via d’uscita, annuncerà domani le dimissioni dopo avere respinto poche ore fa il tentativo di costringerla ad abbandonare il suo incarico da parte dei settori del governo e del Partito conservatore contrari al nuovo piano per la Brexit. Il quotidiano conservatore aggiunge come personalità vicine alla May ritengano che la premier annuncerà la sua uscita di scena dopo l’incontro di domani con Graham Brady, presidente del 1922 Committee, l’organismo del Partito conservatore che rappresenta i deputati senza incarichi di governo. In sostanza, la base parlamentare del partito. Ma nella mattinata di giovedì è intervenuto sull’argomento il ministro degli Esteri, Jeremy Hunt, che ha smentito la notizia delle dimissioni, almeno per i prossimi dieci giorni: “Sarà lei il primo ministro che riceverà” Donald Trump, dal 3 al 5 giugno.
Hunt, May per adesso rimane in carica: “Giusto che sia così”
Il ministro degli Esteri, che nei giorni scorsi ha incontrato la premier nella residenza di Downing Street, si era rifiutato di rilasciare dichiarazioni: “Tutte le discussioni fra il ministro degli Esteri e il primo ministro devono rimanere confidenziali e non sarò io a cambiare questo stamattina”, aveva tagliato corto di fronte ai reporter. Ma dopo le rivelazioni del Times ha escluso pubblicamente le dimissioni della May prima dell’inizio di giugno: “Sarà lei la premier che riceverà” a Londra Donald Trump dal 3 al 5 giugno “ed è giusto che sia così”, ha dichiarato a margine di una conferenza sulla cyber-sicurezza a Londra. Le sue parole fanno pensare che domani la premier, ormai isolata nel governo e nel partito sulla Brexit, possa limitarsi a concordare la data di un suo passo indietro a giugno e forse a renderla pubblica.
Hunt, tiepido pro Remain al referendum sulla Brexit del 2016, quand’era ancora ministro della Sanità, è da tempo passato dalla parte dei brexiteer. Il suo nome è ora fra i più gettonati, assieme a quello della neo dimissionaria Andrea Leadsom, per la successione alla May come leader Tory e come premier laddove la prossima sfida interna al partito dovesse chiudersi nelle prime votazioni in seno al solo gruppo parlamentare. Mentre se si arrivasse a un ballottaggio di fronte alla base degli iscritti, che il regolamento del Partito Conservatore prevede solo come estrema istanza, il favorito diverrebbe il più popolare Boris Johnson, suo predecessore alla guida del Foreign Office.
La ministra Leadsom lascia il governo – La responsabile dei rapporti col Parlamento, in polemica con la premier dopo la presentazione del nuovo piano per la Brexit ha deciso di dare le dimissioni, annunciate in un tweet con “grande rammarico e il cuore pesante”. In una lettera alla premier, Andrea Leadsom ha spiegato di “non credere più che il nostro approccio realizzerà il risultato del referendum” del 2016. Downing Street ha riferito di una premier “contrariata” dalle dimissioni, ma che “rimane concentrata nel realizzare la Brexit per la quale la gente ha votato”. La May si trova ad affrontare una nuova rivolta interna al Partito conservatore, con ampi settori dell’ala euroscettica che chiedono apertamente le sue dimissioni. “Non si può andare avanti così. Non è nell’interesse nazionale”, ha detto alla Bbc Steve Baker, esponente di punta dell’European Research Group, il gruppo che raccoglie circa un’ottantina di deputati conservatori euroscettici, i cosiddetti Brexiteers. Ieri, il 1922 Committee, l’organismo del Partito conservatore che rappresenta i deputati senza incarichi di governo, si è riunito per valutare una modifica ai regolamenti interni, per poter indire un nuovo voto di sfiducia nei confronti della premier. May è già sopravvissuta a un voto di sfiducia lo scorso dicembre e, in base alle attuali regole, un nuovo voto non può essere chiesto prima di 12 mesi. La premier venerdì ha in programma un incontro con Graham Brady, presidente del 1922 Committe, con il quale si era già incontrata la scorsa settimana, concordando che avrebbe indicato la data delle proprie dimissioni, non appena sarebbe stato approvato ai Comuni il suo piano per la Brexit.
Regno Unito e Olanda al voto – Intanto gli inglesi oggi, come gli olandesi, sono chiamati alle urne per eleggere i prossimi membri dell’Europarlamento. I seggi hanno aperto alle 7 locali (le 8 in Italia), mezz’ora dopo l’Olanda. In totale oltre 400 milioni di elettori voteranno da oggi a domenica nei 28 Paesi dell’Ue per eleggere 751 eurodeputati. Nonostante la Brexit, il Regno Unito eleggerà 73 rappresentanti. L’affluenza è tradizionalmente molto più bassa rispetto alle politiche, ma la polarizzazione della Brexit fa prevedere un incremento netto rispetto al picco del 38% del 2004. I risultati arriveranno domenica. E i sondaggi danno per favorito il Brexit Party di Nigel Farage, con un tracollo dei Tory della premier Theresa May, in piena crisi. In teoria i britannici avrebbero dovuto uscire dall’Ue il 29 marzo scorso, poi il 12 aprile. Ora la prossima scadenza è per il 31 ottobre. Domani voteranno irlandesi e cechi; sabato ancora i cechi, i lettoni, i maltesi e gli slovacchi. Domenica tutti gli altri, inclusa l’Italia, che sarà l’ultima a chiudere le urne, alle 23. In tutto verranno eletti 751 europarlamentari per la nona legislatura 2019-2024. Gli aventi diritto al voto sono circa 426 milioni.