Ho sempre provato una sorta di imbarazzo quando ho sentito uomini dichiararsi femministi. Pur condividendo istanze e lotte ho sempre pensato – e ancora penso – che appartengano a un territorio di rivendicazione esclusivo, che richieda al maschio riconoscimento e impegno, ma gli suggerisca anche di non mettervi il il suo piede invadente e storicamente inopportuno. Insomma almeno nella rivendicazione dei diritti, si riconosca alla donna la prerogativa di fare a meno di noi, che di quei diritti siamo spesso nemici. A noi il compito di ascoltare e provvedere, per quanto ci compete.

Questa volta – però – un poco femminista voglio esserlo, perché le cronache recenti offrono uno spunto di riflessione importante, al quale – da maschio – non voglio sfuggire.

Quello che più mi ha colpito in questo senso è in realtà il caso di cronaca meno considerato. Una ragazza eroinomane ha partorito suo figlio in un rudere, nel mezzo del tristemente famoso boschetto dalla droga di Rogoredo, alle porte di Milano.

Io quel boschetto l’ho visto. A suo tempo mi sono addentrato. E’ una specie di discarica umana, di terreno di smaltimento di quel rifiuto rubano che è il mondo della droga che non trova collocazione in nessun sistema di riciclo. Non ci si va per drogarsi, ma per viverci, finché dura.

Le relazioni sono tra spacciatori, in genere appartenenti alla feccia della categoria commerciale e consumatori, in genere relitti umani che non si drogano più  per qualcosa: si drogano e basta. Qualsiasi relazione gira intorno a questo e ne condivide una sorta di lenta, inguaribile disperazione.

In questo teatro lei era rimasta incinta, aveva trascorso nove mesi di gravidanza e alla fine ha partorito.

Nessuna differenza rispetto a nove mesi prima: la droga, il trip, la sporcizia, la fame, il vomito, i soldi probabilmente le marchette con chi le poteva dare la roba o con chi  trovava interessante  far sesso in auto con una donna incinta. Nessuno che le abbia mai detto “ferma, ci penso io”. Nessuno che le abbia mai chiesto “di quanti mesi sei?”. Nessuno che le abbia mai chiesto “come lo chiamerai”. Insomma quelle quattro stupide cose che si dicono a una donna incinta per esprimerle il più banale senso di partecipazione.

Nulla. La droga, il trip e tutto il resto. Punto.

Ecco, dall’inizio alla fine è stata sola. Questo dovrebbe colpire, la solitudine dal primo all’ultimo momento di quello che c’è di più esclusivamente femminile, col suo carico di responsabilità e sofferenze, anche se annegate nel torbido della dose, dell’ago in vena.

Sola si è ritrovata anche la protagonista di un’altra storia, assurta alle cronache negli stessi giorni, Deborah, la ragazza che per difendere sé e la madre ha dovuto uccidere il padre. Lei – poi – è stata perfino lasciata solo ad assumersi la responsabilità di perseguire un uomo violento, intervenire durante l’ennesimo massacro a suon di botte, riconoscere la sua colpa e comminare la pena, diventata in quel momento inevitabile. Deborah è stata perfino lasciata solo a sostituirsi alla polizia, al magistrato, al giudice, al carcere. Solo che Deborah non è lo Stato, ma una persona, che non verrà giudicata assassina, ma in qualche momento della sua vita futura potrebbe sentire di esserlo stata. E sarà sola anche allora.

Condannata alla solitudine era stata anche – a suo tempo – Pamela Mastropietro. Certo, sola anche lei a districarsi nel groviglio di legami famigliari difficili, frequentazioni pericolose, droga. Poi sola col mostro – chiunque fosse e quante facce abbia avuto, non importa – che l’avrebbe uccisa e fatta a pezzi. La solitudine della gioventù vissuta ai margini? No, perché prima di trascorrere le ultime ore con i carnefici, Pamela visse anche la oscena e schifosa solitudine nella quale l’aveva costretta l’uomo che le aveva dato un passaggio e poi umiliata approfittando di lei per pochi euro.

Un corollario drammatico di momenti di solitudine nei quali sono state lasciate tre giovani donne, proprio in quanto donne e davanti ai quali io – in quanto uomo – mi sento di dire che non è nemmeno una questione di femminismo, perché non si tratta di diritti civili da codificare, ma di concetto della persona.

La ragazza del boschetto di Rogoredo non aveva alcun diritto civile da rivendicare, ma l’aspettativa naturale di sentirsi diventare madre e non un tossica incinta, quella sì. Deborah avrebbe potuto rivendicare tutto, dall’intervento di un assistente sociale all’arresto del padre mostro, ma soprattutto il non dover ricorrere – per sopravvivere – allo strumento più classico proprio del maschio violento: la forza. Pamela, poi – che ha attraversato tutte le stazioni della via crucis umana che una ragazza possa percorrere – si è trovata talmente sola con la sua condizione femminile da subirla come strumento di abuso perfino da chi avrebbe potuto soccorrerla.

In questo spazio, di solito, mi occupo di diritti. Ecco questa volta voglio occuparmi del mio diritto a non entrare nel territorio delle sensibilità femminili, ma di denunciare che l’alternativa non può essere quella di voltargli le spalle e lasciare che diventi un deserto di solitudine.

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