Cultura

Festival dei Matti di Venezia, in un docufilm la storia e gli abusi di Giorgio Coda sui pazienti psichiatrici

Un processo quello al medico, che ebbe luogo grazie al coraggio di un’assistente sociale, Maria Rapaci, che nel 1970 ruppe il muro di omertà che nascondeva quel che davvero accadeva negli ospedali psichiatrici

“L’elettromassaggio era una vera tortura, come una folgorazione continuata a intensità crescente, che produce una vibrazione terribile al cervello e la sensazione di impazzire, nonché uno scintillamento continuo di luminosità: un veder le stelle. Durante l’applicazione, Coda mi diceva delle parole ironiche: Ti piace questo avvocato? Vedrai che dopo questo lavorerai”. Questa di Edoardo P. è una delle drammatiche testimonianze contenute nel libro di Alberto Papuzzi “Portami su quello che canta”, che racconta il processo per maltrattamenti allo psichiatra Giorgio Coda, vicedirettore dell’ospedale psichiatrico di Collegno dal 1956 al 1964 e direttore della struttura psichiatrica per bambini Villa Azzurra di Grugliasco dal 1964 alla fine del processo.

Coda venne soprannominato l’elettricista per l’abuso che fece dell’elettroshock negli anni 60. Per sua stessa ammissione nel corso del procedimento giudiziario, ne praticò oltre 5mila su alcolisti, tossicodipendenti, omosessuali e masturbatori, ma anche su bambini. Sconvolgenti sono le modalità con cui l’elettroshock veniva praticato sui pazienti. Il trattamento, infatti, aveva connotati sadici e consisteva nell’applicazione di scariche elettriche durature ai genitali (e in questo caso veniva chiamato ‘elettromassaggio’) e alla testa. Le scariche erano provocate senza anestesia e, quasi sempre, senza pomata e gomma in bocca tanto che spesso ai pazienti saltavano i denti. Una tortura a tutti gli effetti. Queste scariche non facevano perdere conoscenza al malato, ma gli provocavano dolori lancinanti, come testimoniato da Edoardo P. Coda era convinto che questa fosse una terapia curativa.

La sua storia e quella del processo sviluppatosi fra il 1970 e il 1974 sono state condensate in un docufilm firmato dai registi Marino Bronzino e Claudio Zucchellini che è stato proiettato il 24 maggio al Festival dei Matti di Venezia, giunto alla decima edizione. Un processo quello allo psichiatra Giorgio Coda, che ebbe luogo grazie al coraggio di un’assistente sociale, Maria Rapaci, che nel 1970 ruppe il muro di omertà che nascondeva quel che davvero accadeva negli ospedali psichiatrici. La Rapaci inviò un rapporto dettagliato al Tribunale per Minorenni sui metodi di cura e sul trattamento che ricevevano i bambini ricoverati a Villa Azzurra. A questa denuncia si aggiunse quella di un reportage del settimanale L’Espresso che pubblicò foto di bambini nudi legati ai letti all’interno della stessa struttura.

Il 7 settembre del 1970 Coda venne incriminato per il reato di “abuso dei mezzi di correzione” ma venne applicata l’amnistia. Qualche mese dopo, però, il giudice istruttore ricevette un esposto dell’Associazione per la lotta contro le malattie mentali: l’inchiesta venne riaperta e Coda fu processato. Il processo si concluse con la condanna a cinque anni di detenzione, di cui tre amnistiati, per maltrattamenti nei confronti dei pazienti dell’ospedale psichiatrico di Collegno, il pagamento delle spese processuali e l’interdizione, sempre per 5 anni, dalla professione medica. Pena che, però. Non venne mai scontata da Coda in quanto il suo legale fece ricorso fino alla Cassazione dove i tempi s’allungarono troppo e la prescrizione salvò il medico dalla galera. Ma fu un processo, tra l’altro riportato anche nel film La Meglio Gioventù di Marco Tullio Giordana, importantissimo per altri motivi. Per la prima volta, infatti, un Tribunale diede la parola ai ‘matti’ e li fece testimoniare davanti a un giudice e le loro testimonianze, come dimostra l’esito del procedimento, furono ritenute attendibili. Ne scaturì un dibattito fondamentale sui metodi di cura utilizzati in psichiatria che diede inizio al cammino della Legge Basaglia, promulgata il 13 maggio del 1978. Giorgio Coda, tuttora in vita, sparì dalle cronache dopo il processo ma il suo nome ritornò d’attualità nel dicembre del 1977 quando quattro uomini dell’organizzazione armata di estrema sinistra “Prima Linea” entrarono nel suo appartamento, dove effettuava ancora visite private, e gli spararono alle gambe dopo averlo legato a un termosifone.