Nell'agosto 2018 la Shernon holding, controllata all'epoca da una società maltese, ha rilevato 55 punti vendita dall'amministrazione straordinaria impegnandosi a conservare 2.019 posti di lavoro. L'ad Rigoni prometteva 25 milioni di investimenti, ma secondo i sindacati già a fine anno la merce scarseggiava per problemi di liquidità. A febbraio il passaggio di proprietà a una srl con sede a Padova presso l'abitazione del suo socio. In nove mesi maturati 90 milioni di debiti con perdite mensili per 5 milioni
Prometteva 25 milioni di investimenti e il raddoppio dei ricavi entro il 2022, garantiva che i dipendenti erano “il vero patrimonio aziendale” e assicurava che la sede a Malta era “legata alla volontà di portare il business di Mercatone uno oltre i confini nazionali, una volta completato il rilancio in Italia”. Sei mesi fa Valdero Rigoni, amministratore delegato della Shernon holding, ostentava ottimismo sul futuro della catena imolese attiva nella grande distribuzione di mobili. Che però perdeva più di 5 milioni al mese, ha accumulato 90 milioni di debiti in 9 mesi e due giorni fa è stata dichiarata fallita (per la seconda volta in quattro anni) senza che i circa 1.800 dipendenti ricevessero alcun preavviso. In mezzo ci sono stati il passaggio di proprietà da una società maltese ad una srl con 10mila euro di capitale e sede a Padova presso l’abitazione del socio di Rigoni, la richiesta di cassa integrazione straordinaria per una parte dei lavoratori, la domanda di ammissione al concordato preventivo e il miraggio di presunti investitori interessati a ricapitalizzare l’azienda.
Il curatore: “Omesso il pagamento di tasse e contributi” – In nove mesi la Shernon, come riconosciuto dal tribunale, ha maturato 90 milioni di debiti di cui 67 verso fornitori e 8 di oneri previdenziali accumulando perdite gestionali al ritmo di oltre 5 milioni al mese, non ha mantenuto gli impegni presi all’atto dell’acquisizione e ha perso sia l’accesso al credito bancario sia la fiducia dei fornitori che “rifiutavano le prestazioni di merci in mancanza del loro pagamento immediato”. Si trova quindi in uno “stato di definitiva incapacità nel fare fronte regolarmente alle proprie obbligazioni”. Secondo il curatore del fallimento Marco Angelo Russo, che ha girato le informazioni al pm Roberto Fontana, in assenza di accesso al credito bancario la società si è finanziata “omettendo il pagamento degli oneri previdenziali e tributari per 8,7 milioni di euro (ivi incluse le trattenute operate sui lavoratori), non pagando fornitori e locatori di un terzo dei punti vendita per 60 milioni, introitando acconti su ordini da evadere per 3,8 milioni e non onorando le obbligazioni assunte con l’Amministrazione Straordinaria (il debito contabilizzato al 28.02.2019 è di 15.200.000 euro circa)”. Da un esame della situazione contabile è emerso uno squilibrio economico patrimoniale mensile “di 5,6-6 milioni circa, con una complessiva proiezione delle perdite relative al periodo gennaio-giugno 2019 stimabile in -34.725.000 euro”.
L’acquisizione attraverso una società maltese – Rigoni, ex fornitore del gruppo, nell’agosto 2018 aveva rilevato dai commissari dell’amministrazione straordinaria 55 punti vendita e la sede di Imola della storica società fondata nel 1978 da Romano Cenni e fallita nel 2015 con tanto di indagine per bancarotta fraudolenta sugli ex soci storici, impegnandosi a conservare 2.019 posti di lavoro e a versare un totale di 22,5 milioni di cui 9 a rate. Veicolo per l’operazione la srl Shernon holding, creata ad hoc e controllata all’epoca dalla maltese Star Alliance Limited. Nel consiglio di amministrazione c’erano Massimo D’Aiuto, ex ad di Simest, la società pubblica che supporta l’internazionalizzazione delle imprese italiane, e Michael Thalmann, ad della lussemburghese Aran asset management, socio e amico di Rigoni fin dall’infanzia: sono nati entrambi nel 1960 nel cantone svizzero di Solothurn.
Le promesse di rilancio. I sindacati: “Già da fine anno la merce scarseggiava” – Nel novembre 2018 Rigoni raccontava al Sole 24 Ore che – dopo tre anni di amministrazione straordinaria, due bandi di gara andati a vuoto e una lunga trattativa per l’acquisizione – quella che qualcuno la definiva “l’Ikea italiana” aveva bisogno di “recuperare il know-how e l’entusiasmo dei dipendenti” e dichiarava “tutta l’intenzione di rilanciare fortemente il brand sul mercato, migliorandone l’offerta e il posizionamento, per adattarli ai nuovi stili di vita e di consumo”. Di lì gli annunci: ristrutturazione di tutti i negozi, creazione di un “catalogo prodotti distintivo e unico di design a prezzo equo grazie alle partnership con gruppi europei leader nella produzione e distribuzione di arredo (i polacchi di Black Red White, i turchi di Dogtas Kelebek), potenziamento delle vendite online e della multicanalità. Ma negli stessi mesi, ricostruiscono ora le sigle Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs, “la mancanza di finanziamenti e di liquidità ha fatto sì che la merce nei magazzini, e di conseguenza nei negozi, cominciasse a scarseggiare“.
La richiesta di cigs e il passaggio alla Maiora invest di Rigoni e Thalmann – Due mesi dopo, a gennaio di quest’anno, la Sherman ha comunicato al ministero del Lavoro l’intenzione di chiedere la cassa integrazione straordinaria per riorganizzazione aziendale per 159 lavoratori. Dal verbale di accordo firmato l’8 gennaio con la direzione generale per i rapporti di lavoro e le relazioni industriali risultava che a quella data la società contava “48 punti vendita attivi sul territorio nazionale”, sui 55 che avrebbe dovuto rilevare dall’amministrazione straordinaria, e un totale di 1.736 lavoratori. Nel febbraio 2019 la Star Alliance è uscita di scena e il controllo è passato alla Maiora invest srl, sede a Padova, 10mila euro di capitale. Soci sempre Rigoni e Thalmann, che risulta residente in Galleria degli Scrovegni 7: lo stesso indirizzo presso il quale ha sede la Maiora.
L’annuncio di “imminente ricapitalizzazione” – A marzo, secondo i sindacati, “i punti vendita risultavano sprovvisti di merce e la stessa non veniva più consegnata sebbene già venduta e pagata dagli acquirenti”. Nell’incontro con le sigle di settore Rigoni “preannunciava un’imminente capitalizzazione della Shernon e informava le rappresentanze sindacali in merito ad una non meglio precisata trattativa con potenziali investitori. La ricapitalizzazione annunciata doveva esser effettuata entro la fine di marzo e presupponeva un investimento pari a circa 20 milioni di euro“.
La richiesta di concordato “per salvaguardare l’operatività” – In aprile nuovo colpo di scena: Rigoni “senza darne informazione alcuna” ai rappresentanti dei lavoratori ha chiesto al tribunale di Milano il concordato preventivo. “L’azienda ha ritenuto di avvalersi di questo strumento per salvaguardare l’operatività e la continuità aziendale, preservando il patrimonio della società, e superare una temporanea situazione di difficoltà finanziaria”, spiegava in un comunicato. “Sono infatti in corso avanzate trattative con nuovi soci ed investitori interessati all’ingresso in società. Dette trattative, pur se molto avanzate, richiedono tempistiche non conciliabili con la tensione finanziaria in essere e, pertanto, lo strumento del concordato con riserva risulta funzionale e necessario al buon esito delle stesse”. Il numero uno garantiva comunque che “l’obiettivo non è uscire dal mercato, ma anzi, ripartire più forti”.
Ma il tribunale, dopo aver accertato che la società generava oltre 5 milioni di perdite al mese e che “la complessa architettura economico finanziaria” del piano di concordato “non garantisce in alcun modo i creditori di Shernon, risultando peraltro fortemente condizionato da molti se”, ha rigettato la richiesta e il 23 maggio ha dichiarato il fallimento. Il curatore è stato autorizzato a restituire l’azienda all’amministrazione straordinaria che, “in quanto proprietaria dell’azienda, potrà assumere le più opportune decisioni”.