A metterli uno sopra l’altro sono una montagna impressionante. Di voti. Sei milioni centosettantanovemilacinquecentotrentanove. Un’enormità. E’ questo il numero in valore assoluto dei consensi persi dal M5S in un anno preciso di governo. Una cifra che adesso rappresenta la spinta propulsiva del fatidico win-win di Matteo Salvini, il nuovo padrone di questa Italia elettorale così volatile e umorale, in cui i cicli politici si accorciano sempre di più. E così quello di Luigi Di Maio è finito in appena dodici mesi. Di fronte alle due opzioni del leader leghista, da oggi premier-ombra dell’esecutivo verdegiallo, e non gialloverde, il capo politico pentastellato non ha via d’uscita. Il suicidio grillino è sanguinoso: dal 32,68 delle Politiche al 17,07 delle Europee. Completamente ribaltati i rapporti di forza all’interno della maggioranza, con la Lega che guadagna tre milioni e mezzo di voti in una situazione di bassa affluenza di votanti, il 56,09.

In questo quadro, il ministro dell’Interno può starsene comodamente seduto e tranquillo a dettare l’agenda di governo (dal Tav all’abuso d’ufficio, dalle autonomie alla flat tax) con la pistola del voto anticipato sul tavolo. Un’evenienza che la Lega potrebbe affrontare liberandosi una volta per tutte di Silvio Berlusconi (poco sopra l’otto per cento e altri due milioni di voti persi) e alleandosi con i camerati sovranisti di Fratelli d’Italia. Ecco un altro dato inedito: mai nella storia repubblicana d’Italia due partiti di destra estrema hanno toccato insieme la soglia del quaranta per cento.

In uno stallo del genere, Di Maio anziché far finta di nulla e dimostrare ancora una volta di essere un dilettante della politica avrebbe dovuto fare una mossa, uno spariglio di fronte a questo choc elettorale. Ché la bocciatura su tutta la linea è impietosa e il suicidio era annunciato da mesi. Già a gennaio i sondaggi annunciavano una Lega con il doppio dei voti del M5S – quello che è successo ieri – e i grillini non hanno fatto nulla per invertire il trend, mascherandosi dietro quella che era già stata la puerile giustificazione regina prima di Berlusconi e poi di Renzi: non sappiamo comunicare.

Ma i processi politici sono altra cosa e richiedono una classe dirigente in grado di pilotarli e padroneggiarli. Nulla di tutto questo è successo. Perdipiù con un premier venuto dal nulla e un ministero chiave, l’Economia, che oggi risponde solo al Quirinale. Adesso che il boom di un anno fa si è sgonfiato, Di Maio sembra deciso a imitare la deriva renziana dopo il referendum istituzionale. Rimanere al suo posto di capo politico e prolungare l’agonia della sua parabola negativa. Domanda: potrà mai essere lui il leader (!?!) che farà risalire eventualmente il M5S? No. La sua tattica è stata suicida anche in campagna elettorale: può essere credibile un capo che si erge a principale oppositore del suo stesso alleato? No, ovviamente. Non a caso, c’è stato finanche il sorpasso del Pd zingarettiano.

Invece per salvare il salvabile dovrebbe farsi da parte e consentire ad altre figure (Di Battista, Fico, lo stesso Conte) di scuotere l’ambiente e tentare di resettare un anno disastroso. Anche perché, con lui ancora al timone, il dialogo col Pd non inizierà mai. E di fronte a questa destra, solo un’interlocuzione tra dem e grillini può formare un argine con speranze di vittoria, a partire dalle prossime regionali in Emilia Romagna.

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