Era perfettamente consapevole del fatto che le lunghe code causate dal sovraffollamento di questi giorni sull’Everest costituissero un ulteriore fattore di rischio per la scalata alla vetta più alta del mondo così aveva deciso di cambiare il suo programma, rinviando la data della sua scalata: “Sono sicuro che andare il 25 significherà trovare meno persone, a meno che non facciano tutti lo stesso calcolo”, aveva scritto sui social l’alpinista Robin Haynes Fisher, 44 anni, prima di affrontare l’impresa. E invece, purtroppo, hanno fatto davvero tutti il suo stesso calcolo: è stato lui infatti, la decima vittima della “zona della morte”, come è stata definita quell’area della montagna più alta del mondo dove in questi giorni le code di scalatori sono diventate così lunghe che l’ossigeno contenuto nelle bombole non è sufficiente per affrontare salita e discesa.
Fisher è morto proprio per questo motivo: la scorta di ossigeno delle bombole che si era portato dietro non gli è bastata e così, dopo aver raggiunto la vetta con una salita lunga ed estenuante, la discesa gli è stata fatale. Oltretutto, quel giorno lassù ad oltre 8mila metri c’era anche un forte vento che sferzava gli scalatori. Le guide hanno cercato di salvarlo, dandogli acqua e ossigeno, ma per lui non c’è stato nulla da fare. La compagna, Kristyn Carriere, lo ha ricordato su Facebook: “Il mio cuore è spezzato. Lui ha raggiunto il suo obiettivo: era la sua ultima sfida”.
You may have seen this photo being splashed across news outlets. It’s the queue to the summit of Everest taken by @nimsdai. Barely anyone has credited him for the image let alone paid for it. @DailyMailUK why don’t you contemplate sponsoring him pic.twitter.com/f6oiPOhYdR
— Levison Wood (@Levisonwood) 26 maggio 2019