La notizia della fusione tra FCA e il gruppo Renault-Nissan – avvenimento epocale se portato a termine – si presta a una infinità di considerazioni, la maggioranza delle quali purtroppo, sia detto senza offese, decisamente tristi. E nonostante questo, cercheremo di limitarci ad alcune poche, aggiungendovi un sogno finale, perché anche nel mondo delle grandi imprese non è detto che tutto debba andare sempre e solo nella strada grigia dei profitti per pochi.
La fusione tra i due gruppi automobilistici è la fine, o la quasi-fine, di un lungo processo di sganciamento della famiglia Agnelli dalla governance della Fiat. Da tempo gli eredi dell’Avvocato, avendo preso atto di non avere né la voglia né le forze per governare Fiat come se fosse cosa del Senatore Agnelli o di Vittorio Valletta, avevano intrapreso la strada dei saluti soft, se possibile ricchi di dividendi e di valorizzazione del patrimonio della Exor (28,9 % di FCA). Marchionne in realtà, fu il punto forte di svolta verso questa linea, basata sulla tutela prioritaria degli interessi dell’azionista di maggioranza, che però da tempo non coincidevano più con gli interessi della Fiat, azienda automobilistica italiana. Il doppio merito di Marchionne così, fu quello di salvare la ghirba degli Agnelli, senza dare (troppo) l’impressione di preparare la liquidazione di Fiat.
I successori, non all’altezza del manager italo canadese, non avrebbero potuto continuare in questo difficile equilibrismo e sapevano fin dall’inizio di essere «condannati» a fare outing, a procedere sulla strada di una fusione. Il Merge con Renault, stando a quanto si legge, dovrebbe comportare il dimezzamento della quota Exor nell’azionariato complessivo della nuova società, e quindi consegnerà ai consiglieri di Torino un ruolo decisamente marginale. Le decisioni sulla nuova società saranno prese altrove, non certamente a Torino. E questa inedita irrilevanza di Exor offrirà la base logica, oltre che materiale, alla famiglia Agnelli per uscire presto dalla nuova società, oppure, le consentirà in alternativa, di restare tranquilla, senza impegni diretti di governance a godere dei profitti (auspicabili). Da qualsiasi parte la si rigiri in ogni caso: fine della storia della Fiat.
Oggi però non sappiamo ancora quale sarà il ruolo degli stabilimenti italiani. Detto onestamente, ci interessa poco in che misura verrà conservata la forza lavoro in Italia. Se qui da noi non resta lo sviluppo dei prodotti, la realizzazione di strategie a marchio Fiat, i posti di lavoro saranno in ogni caso nulla più che parcheggi temporanei, una morte inevitabile. Data la situazione, la difesa degli stabilimenti italiani assomiglia alla carica di Isbuscenskij, l’ultimo assalto di una gloriosa cavalleria italiana in un’epoca di carri armati, il residuo inutile di un passato eroico, morto e sepolto. Perché le questioni importanti stanno altrove.
Che faranno i francesi con marchi e automobili concorrenti? Sosterranno Renault o Alfa Romeo o Lancia? Più che difendere il lavoro o il capitale italiano, come hanno vociferato alcuni «esperti della Lega», bisognerebbe provare a difendere la cultura d’impresa italiana, la tradizione automobilistica Fiat, che con questa fusione finirà del tutto cancellata dalla faccia della terra e che in realtà è l’asset di maggiore valore fra tutti gli asset Fiat.
Un governo serio (per il quale da tempo abbiamo perso ogni speranza) ad esempio, potrebbe decidere di mandare qualcuno in visita dalla famiglia Agnelli per far loro un certo discorsetto. «Cari ragazzi, voi avete un debito e un credito con l’Italia e noi intendiamo non dimenticarlo. Fatevi pure gli affari vostri, ma non lasciate che il patrimonio culturale e immateriale della Fiat vada a farsi benedire per il vostro legittimo (ma non assoluto) desiderio di godervi i vostri denari. Considerate anche il desiderio della Repubblica Italiana di non aver buttato in un cassonetto tutti i denari pubblici spesi per difendere il lavoro, le fabbriche e la cultura Fiat. Tanti sacrifici, tanta storia non può andare a finire così, senza colpo ferire. Abbiamo una proposta per voi. Sposate pure Renault, andate pure in un consiglio di Amministrazione controllato da americani e da francesi (compreso lo Stato Francese). Però prima di firmare restituiteci (gratis) quei due marchi importanti, Alfa Romeo e Lancia, che dopo aver ottenuto senza pagarli, avete praticamente liquidato, perché noi non vogliamo che scompaiano insieme a Fiat. L’Italia non vuole perdere completamente la sua importante tradizione nell’industria automobilistica, la ricchezza di aziende come Alfa e Lancia che voi avete assorbito e praticamente azzerato. Ridateci Alfa Romeo e Lancia perché noi vogliamo rilanciarle. Assumeremo la guida di un processo che, preferibilmente trovando degli investitori privati, possa restituire un futuro a queste gloriosissime aziende, ai lavoratori, agli ingeneri italiani, e per far questo vogliamo indirizzarle verso la produzione di auto elettriche, che sono il futuro obbligatorio dell’automobilismo, al quale purtroppo Fiat non apparterrà».