Martedì 28 maggio 1974: alle 10.12, il boato di un’esplosione potente lacera un cielo grigio che sembra d’autunno. È una bomba, che interrompe un comizio antifascista in piazza della Loggia a Brescia e provoca otto morti e oltre cento feriti. Da quel giorno, ci sono voluti tre processi e 43 anni per arrivare, finalmente, a una sentenza definitiva di condanna. Ma ora la sentenza c’è. La strage di Brescia ha dei colpevoli, a differenza di quella di piazza Fontana e di tante altre stragi italiane. E quella sentenza ci spiega molto anche delle altre stragi rimaste impunite.
Il terzo processo, cominciato il 25 novembre 2008, ha come imputati Carlo Maria Maggi, il capo del gruppo neofascista Ordine nuovo nel Triveneto, e Maurizio Tramonte, giovane militante padovano di Ordine nuovo e nello stesso tempo informatore dei servizi segreti. È lui la “fonte Tritone” che aveva ispirato una cruciale relazione del centro Cs di Padova del Sid (il servizio segreto militare), datata 6 luglio 1974. In quella relazione si diceva che nel 1974 c’erano state alcune riunioni in cui Ordine nuovo, sciolto l’anno precedente, aveva deciso di riprendere clandestinamente le attività.
Uno di questi incontri era avvenuto ad Abano Terme il 25 maggio, tre giorni prima della strage di piazza della Loggia. Maggi aveva detto ai camerati che bisognava fare un grande attentato, che bisognava proseguire nella strategia stragista iniziata il 12 dicembre 1969 in piazza Fontana. In una riunione successiva, aveva aggiunto che la strage di Brescia non doveva “rimanere un fatto isolato”, ma essere seguita da altre “azioni terroristiche di grande portata da compiere a breve scadenza”, per aprire un “conflitto interno risolvibile solo con lo scontro armato”.
Dunque i servizi sanno in diretta che cosa fanno i neri di Ordine nuovo. E li lasciano fare. Il generale del Sid Gian Adelio Maletti riceve le informazioni, ma si guarda bene dal passarle ai magistrati, sia prima, sia dopo la strage. Così ci sono voluti 20 anni per scoprire chi era “Tritone” e 43 per condannarlo.
La notte del 20 giugno 2017, la Corte di Cassazione conferma la sentenza d’Appello che nel 2015 aveva comminato l’ergastolo a Carlo Maria Maggi e a Maurizio Tramonte. La strage di Brescia ha dei responsabili. La giudice milanese Anna Conforti scrive nella sua sentenza d’Appello che responsabili sono Maggi e Tramonte, ma che “altri parimenti responsabili hanno lasciato questo mondo o anche solo questo Paese, ponendo una pietra tombale sui troppi intrecci che hanno connotato la malavita anche istituzionale all’epoca delle bombe”.
La sentenza su piazza della Loggia è una decisione davvero storica perché permette finalmente di scrivere la storia della strategia della tensione non più al condizionale, ma all’indicativo. Quella storia è come un grande, terribile quadro di Hieronymus Bosch, cancellato e grattato e ridipinto, in decenni di interventi, falsificazioni, silenzi, menzogne, depistaggi. Ora un pezzo, un pezzo piccolo ma centrale, è stato restaurato. Ha ripreso i suoi colori, ha rivelato i volti di alcuni personaggi, ha indicato una scena, ha mostrato un’azione. Quel piccolo pezzo permette di capire il senso del quadro.
In Italia è stata combattuta una guerra segreta, che ha schierato eserciti invisibili, con inconfessabili sponde istituzionali e segretissimi accordi internazionali. Il terrore delle bombe in una banca, in una piazza, in una stazione, su un treno, era l’ingrediente forte del menù di una “guerra non ortodossa”, “guerra psicologica”, la low intensity war teorizzata dai manuali di strategia della lotta al comunismo, che in Italia era più stringente perché qui passava la frontiera geopolitica tra i due blocchi. Le “operazioni sporche” erano demandate agli “irregolari” dei gruppi neri. Maggi e il suo gruppo di Ordine nuovo sono centrali in questa guerra, da piazza Fontana (1969) a piazza della Loggia (1974), passando dalla strage alla Questura di Milano (1973). Maggi è l’uomo che unisce le stragi. È condannato per quella di Brescia. Incrocia Carlo Digilio, unico reo confesso di piazza Fontana. Incrocia Gianfranco Bertoli, il falso anarchico che a Verona è “preparato” da uomini di Maggi a gettare la bomba davanti alla questura di Milano.
Gli apparati di Stato vegliano silenziosi, servendosi di personaggi come Tramonte: “Io ero un ‘infiltrato’ nelle cellule neofasciste operanti nel Veneto”, diceva di sé, “infatti mentre mi facevo passare dagli altri partecipanti per uno di loro, riferivo tutte le notizie rilevanti che apprendevo a un agente del Sid”. Ma era un infiltrato dei servizi nei gruppi neri o dei gruppi neri nei servizi? Un doppio gioco a senso unico.