Ha camminato, quartiere per quartiere, da sindaco prima e da candidato poi. Ha pedalato pure, zaino in spalla, sempre in sella alla bici. E strada per strada ha scritto una pagina di politica che per Lecce è storia: Carlo Salvemini ha portato il centrosinistra a vincere al primo turno. Mai era successo prima. E neppure mai prima era accaduto che il centrodestra, che ha schierato il consigliere regionale di Fdi Saverio Congedo, toccasse il fondo come è successo domenica, fermandosi al 33,10 per cento. Complice di questo flop è stata la spaccatura con l’ex sindaca Adriana Poli Bortone, che ha scelto di correre da sola, di fatto portando all’autodemolizione un’intera classe dirigente. La caparbietà dell’ex senatrice ha pesato e ora la riporta in Consiglio comunale, dopo dieci anni di assenza, da quando, cioè, il suo pupillo, l’allora sindaco Paolo Perrone (tra l’altro cognato di Congedo), la defenestrò, con una “cacciata” dalla giunta rimasta negli annali di Palazzo Carafa.
I numeri, tuttavia, dicono che qualcosa di più profondo è accaduto a Lecce, città il cui cuore ha sempre battuto a destra: anche unendo il risultato di Poli Bortone (9,61 per cento) a quello di Congedo, c’è un divario di oltre otto punti percentuali rispetto al 50,87 per cento agguantato da Salvemini, presidente di una cooperativa che si occupa di editoria e sindaco per un anno e mezzo, fino a gennaio scorso. Salvemini avrebbe vinto persino se lo sfidante avesse coagulato pure il 5,05 per cento del M5s e l’1,37 per cento di Sinistra Comune. Il suo risultato è la prova che uno più uno in politica non fa due: le sue 26.909 preferenze superano la somma di quelle che, appena due anni fa, avevano ottenuto lui stesso e Alessandro Delli Noci. Un tandem che si consolida il loro: Delli Noci, giovane ex assessore della giunta Perrone di centrodestra, ha sfasciato la coalizione azzurra nel 2017, candidandosi a sindaco e ottenendo con le civiche e Udc il 16,9 per cento; poi si è alleato con Salvemini al ballottaggio ed è diventato il suo vice, vero trait d’union tra il governo della città e il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano. Quel rapporto privilegiato si è trasformato, in questi mesi, in una lista diretta espressione del governatore e architettata dal suo capo di gabinetto Claudio Stefanazzi, terza per preferenze dopo il Pd e la civica del sindaco.
Uno choc, dunque, per il centrodestra, che era sicuro di arrivare al ballottaggio. A dargli ottimismo era stato il responso delle europee in città: Lega primo partito con il 22,85 per cento; Forza Italia quarto con l’11,28 per cento dopo Pd e M5s; Fdi quinto con l’11,24. Numeri che alle amministrative si sono drasticamente ridimensionati: Lega al 4,43 per cento (meno della lista del senatore salviniano Roberto Marti, Prima Lecce, che ha ottenuto il 5,79); Fi al 4,99; Fdi al 7,11. Neanche l’introduzione di un metodo nuovo per la scelta del candidato, le primarie, ha dato la spinta giunta. Anzi, pare essere stato il definitivo colpo di grazia, il “funerale del centrodestra”, come l’aveva ribattezzato Poli Bortone: competizione tardiva, celebrata solo il 17 marzo scorso; poco sentita, partecipata appena da 6.600 elettori contro i 17mila del 2012; snobbata dalla Poli, che avrebbe potuto fare la differenza. Tutto ciò significa che c’era ben poco dietro lo spumante e i pasticciotti con i quali, il 7 gennaio scorso, gli azzurri hanno festeggiato la caduta di Salvemini: non programmazione, non un percorso di unità, non l’appianamento delle grandi frizioni che avevano portato alla sconfitta del 2017.
Eppure, la coalizione ha avuto due anni per riorganizzarsi, per tentare di serrare le file, per rilanciare. E dalla sua non ha avuto solo il tempo ma anche le condizioni favorevoli: il sindaco ha sofferto non poco nei suoi precedenti 18 mesi di governo alle prese con l’anatra zoppa, cioè senza una vera maggioranza per amministrare. La commissione elettorale gli aveva sì attribuito 17 seggi, ma quella stabilità è durata solo otto mesi, affossata da una sentenza del Consiglio di Stato, dopo la quale Salvemini ha retto per quasi un anno con la stampella garantita da Prima Lecce, che, come detto, fa capo al senatore leghista Roberto Marti. Il “patto di scopo” siglato con quel gruppo è andato avanti fino a novembre, cioè fino all’assestamento di bilancio. Poi, dopo aver messo in sicurezza i conti e varato il piano di riequilibrio pluriennale, Salvemini si è dimesso a gennaio. Nello stesso giorno, lo hanno fatto anche i consiglieri di opposizione (tranne l’unico pentastellato), con una firma davanti ad un notaio, accelerando così i tempi: è stato subito commissariamento, si è tornati subito al voto. Per volontà dello stesso centrodestra, che poi, però, è andato allo sbaraglio. I cittadini non hanno perdonato: nell’assise cittadina adesso manca buona parte della classe dirigente degli ultimi vent’anni, un terremoto stavolta politico dopo quello giudiziario che ha portato agli arresti di due ex assessori della giunta Perrone (e di un consigliere del Pd) nell’ambito dell’inchiesta per l’assegnazione delle case popolari.
“Nessuno ha avvertito ciò che stava accadendo”, ha ammesso Congedo, riconoscendo una “sconfitta netta”. “Si è chiuso un ciclo, è finita una stagione”, ha detto all’indomani dello spoglio. Ora è ancora più chiaro che il problema, due anni fa, non è stata la candidatura di Mauro Giliberti, giornalista di Porta a Porta. Era già in corso uno scollamento tra il centrodestra e la città che gli è sempre stata devota, la Lecce più monarchica d’Italia, la roccaforte di Dc prima, An poi, Forza Italia dopo e dei fittiani ancora. Da quando è stata introdotta l’elezione diretta del sindaco, non c’è stata storia per nessuno, il centrodestra ha sempre vinto al primo turno con consensi schiaccianti. Sempre, tranne due volte: nel 1995, quando le spaccature hanno portato al ballottaggio e ad affermarsi fu il centrosinistra con Stefano Salvemini; nel 2017, quando con lo stesso copione è stato eletto il figlio Carlo. Entrambe le amministrazioni rosse sono state fatte cadere dopo circa due anni.
Stavolta la storia non si è ripetuta: le urne hanno riconsegnato Lecce al centrosinistra. E con una differenza fondamentale: questa non è solo la sconfitta cocente del centrodestra, è la vittoria di Salvemini, costruita nel tempo, passo dopo passo, aggregando le civiche di centro legate a Delli Noci, capace di fare a meno dei possibili supporti azzurri che pure aveva avuto nei mesi scorsi dalla sua, in grado di allontanarsi anche della sinistra più critica senza rimpiangerla. Salvemini ha studiato per anni la città dai banchi dell’opposizione, si è ritagliato un ruolo indipendente rispetto al Pd che è il suo maggiore azionista (prima lista in questa tornata), è rimasto un intellettuale tra la gente e nelle periferie più che nei salotti. “Abbiamo imparato che per vincere bisogna crederci davvero, organizzarsi, mettersi in cammino. La vittoria mi consegna la credibilità”, ha commentato a caldo lui. Il riferimento è ai suoi primi 18 mesi di governo, segnati da scelte impopolari, come la dichiarazione di predissesto, il nuovo Piano coste, la rivisitazione dei contratti di lavoro nella partecipata Lupiae Servizi. Sembra essere una città nuova quella che lo ha votato, “la città di tutti” quella che punta a concretizzare. Ora ha una maggioranza solida per provare a farlo, senza sconti e pure senza alibi.