Sto partecipando con personale e profondo dispiacere al disastro del Movimento Cinque stelle dopo le recenti Elezioni europee. Premetto che ho 81 anni suonati, non ho mai fatto politica attiva anche se me ne sono sempre interessato e ho pure cercato di dare contributi in denaro (alla fondazione del Pd) e in riflessioni, che pubblico sul Fatto Quotidiano da tre anni a questa parte.
Aggiungo, per chiarirci, che da tre anni cerco di parlare (ormai una sessantina i miei post) di una proposta di politica industriale manifatturiera per il nostro Paese: si tratta di una “idea-forte”, come si usa dire nel gergo manageriale, che fatica a passare in un mondo fortemente condizionato da culture basate sui libroni dei dotti, ma molto di meno sulla freschezza delle idee. Non è mio costume chiedere qualcosa in cambio.
La fine del Pd, la vergognosa parabola di Matteo Renzi (che io ho sostenuto a lungo, e che mi ha molto amareggiato quando ho dovuto riconoscere ciò che amici fiorentini mi dicevano da tempo su di lui), la “musica” nuova e frizzante suonata con vigore da Beppe Grillo, l’avallo di persone dello stampo intellettuale e morale di Dario Fo, l’arrivo sulla scena di personaggi assolutamente apprezzabili come Luigi Di Maio, Roberto Fico, Alessandro Di Battista, l’impronta gagliarda e innovativa data al Movimento e, soprattutto, le forsennate campagne dei giornaloni contro il M5S (segno di forte paura da parte delle classi “bene”; non diversamente, nel 1921, fu questo il vero e più forte terreno di coltura del fascismo: ma, di grazia, su quale altro terreno ha lavorato Matteo Salvini?), tutto l’insieme agitato e shakerato hanno fatto di me un sostenitore di questa novità.
Avevo capito che la scommessa non era facile: questi ragazzi hanno dovuto buttarsi in politica e, allo stesso tempo, costruirsi una macchina politica che non esisteva: niente radicamento sul territorio, niente assessori e consiglieri comunali (vera sede, oggi, del potere), niente strutture e uomini preparati: al massimo suscitavano curiosità, ma anche tanti risolini. Ma avete visto la campagna sulla non-laurea di Di Maio? Qualcuno si è mai ricordato se, per caso, Benedetto Croce avesse avuto uno straccio di laurea?
La reazione della gente alla novità grillina fu forte: sapevamo che mancava di stabilità, ma se ne raccoglieva il messaggio di richiesta di aiuto, di Sos che la società italiana lanciava nell’etere, come quelli del Titanic, consci che la nave andava a fondo. In grande fretta e furia i grillini furono costretti a racimolare una ciurma, darsi parvenza di struttura politica, disegnarsi un programma da raccontare agli elettori, cercare di consolidare la fiducia di tanti che chiedevano un cambio, un profondo cambio, e, nel contempo, a gestire una situazione nazionale molto pericolosa. Il tutto sotto una campagna resa forsennata dalla fifa un poco cianotica del ceto al potere. Ebbene, esprimo una mia opinione: sono stati non bravi, strabravi, e seri: hanno parlato un linguaggio politico, fatto di temi politici, di cui da decenni non si sentiva il timbro. Un linguaggio, come diceva il mio nonno comunista doc che aveva fatto la scelta della vita povera, da “uovo fuori dal cavagnolo”.
Una novità assoluta: e uno stile, quello di Di Maio, assolutamente di classe, di grande classe. E tuttora, nonostante la batosta colossale, dico “bravo, bravissimo Di Maio”: sei un politico a tutto tondo, sei – e qui è la sua stupefacente particolarità – un “politico nuovo”. Hai sbagliato, certo, hai sbagliato, ma di colpa si tratta, non di dolo. Diceva papa Pio X: “chi fa falla, chi non fa falla sempre, appunto perché non falla mai’. Capito Salvini? Ma le persone intelligenti, che sbagliano come tutte le altre, sanno trarre insegnamenti preziosi: sì, oggi una sberla, ma lavorano per essere vincenti domani, mentre i mentecatti restano tali e sempre al palo.
Nel frattempo questa nuova classe politica era costretta a raccogliere la ciurma in quattro e quattr’otto. Ce ne vogliamo rendere conto? E qualche opportunista ha colto l’occasione. Pur di rimediare magari una breve comparsata televisiva per la gente di bocca buona. Questa è stata la sensazione negativa che ho avuto nel vedere questi interventi con prua su Di Maio. No: così non si va lontano.
Uno degli errori più grossi di Di Maio è stata la tecnica adottata nella comunicazione: pur avendo (oltre a Rocco Casalino – cui qualche domandina dovrà pure essere indirizzata…) un laureato in scienza della comunicazione come Gianluigi Paragone, che ha nel suo passato qualche cambio di casacca. E che non mi risulta sia intervenuto, nel momento giusto, a cercare di correggere gli errori del capo: perché errori ce ne sono stati, senza dubbio. Tirerei una conclusione: fra un Di Maio (che sbaglia ma come tutti noi) e un Paragone (che sbaglia perché leggermente a mio parere motivato da un complesso di opzioni personali) non ho dubbi: Di Maio.