Il 2 giugno, festa della Repubblica, ha dato conferma dell’assoluta mancanza di sintonia tra Roberto Fico e i dioscuri (ormai loro malgrado) del governo verde-giallo. Difatti Matteo Salvini dichiara elegantemente che le esternazioni del Presidente della Camera «gli fanno girare le scatole». Mentre il neo-doroteo Luigi Di Maio, in barba alle comuni appartenenze movimentiste, si schiera con il partner leghista, in quanto le parole di Fico risulterebbero «distrazioni di massa».

Ma cosa era stato dichiarato di tanto sconvolgente? Nel corso delle celebrazioni, nient’altro che la solidarietà a tutte le persone che vivono tra noi. Compresi «migranti, rom e sinti, che hanno i nostri stessi diritti».

Apriti cielo! Salvini ha buon gioco nel trovare un nuovo spunto per la sua quotidiana opera di terrorismo verbale; di eccezionale efficacia al fine di pescare voti nello stagno di una società che incattivisce nello smarrimento. Difatti la butta sull’apocalittico parlando allusivamente (ma a che proposito?) di «torto fatto alle migliaia di giovani che rischiano la vita per difendere l’Italia». Come se ci trovassimo nel bel mezzo di una guerra guerreggiata, e l’alternativa nevrotica fosse tra patriottismo e disfattismo (“Taci, l’extracomunitario ti ascolta!”); non in un’emergenza umanitaria, che richiede accoglienza e inclusione. Ma già, la cultura politica del Capitano leghista è quella di uno “spara-spara” da playstation.

Meno scontata la reazione del capo politico cinquestelle, incappato nell’ennesima furbata politichese fuori bersaglio, dopo il recente autogol della presa di distanza da Virginia Raggi, nel momento in cui la sindaca mostrava vero coraggio nel difendere in prima persona una famiglia rom dalla canea para-fascista a Casal Bruciato. Anche lui a inseguire da perfetto gregario la rivisitazione alla cassoeüla dello slogan donaldtrumpiano “prima i nostri”? La demagogia più bieca con pretesa di alta professionalità di governo,

Poco importa che gli stranieri residenti in Italia al 1 gennaio 2018 siano 5.144.440, pari all’8,5% della popolazione residente. Dato ormai stazionario. Con la comunità straniera più numerosa proveniente dalla Romania e dunque comunitaria, con il 23,1%. Soprattutto, il fatto che in larga misura questi avvii riempiano i vuoti creati dal calo demografico, andando a svolgere ruoli lavorativi che le forze “indigene” non riescono più a coprire. Magari creando circuiti alternativi che rimediano alle crescenti carenze del nostro welfare. Come gli 80mila arrivi dall’Ecuador (1,5% dell’immigrazione odierna), in larga misura rappresentati da presenze femminili impegnate nell’assistenza agli anziani (le cosiddette “badanti”).

Quindi l’urgenza di quelle politiche di inserimento di cui non si vede traccia nel prevalere delle trombonate propagandistiche. Che non portano da nessuna parte, se non al ramazzare voti alle elezioni europee. Mentre la realtà incancrenisce.

Quanto le dichiarazioni generose del presidente della Camera evidenziavano, a fronte di ottuse chiusure di quanti si ostinano a non voler capire, come una banda di avvinazzati delle valli prealpine.

Una storia che viene da lontanissimo, su cui (una volta tanto) la Chiesa cattolica ha detto parole di verità. Urticanti per gli spregiudicati atei devoti manipolatori di rosari.

E non ci si riferisce a Papa Bergoglio, ma a voci che arrivano financo dalla tarda romanità. Quando papa Innocenzo scandalizzò i benpensanti del V secolo dichiarando che «la popolazione in parecchie province è diminuita a tal punto da rendere necessario il ricorso ai barbari». Un messaggio di inclusione che allora venne respinto con sdegno dai latini. Tanto da finire loro stessi esclusi. Per tracotanza e ottusità.

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