Oggi a Cosenza viene attribuito dalla Fondazione Premio Sila un premio alla memoria di Alessandro Leogrande, scrittore e giornalista (che collaborò anche con il Fatto Quotidiano) scomparso nel 2017 all’età di quarant’anni. Pubblico qui un estratto dell’intervento che pronuncerò.
I fratelli Rosselli erano profondamente convinti che per reagire al «crollo di un’intera struttura nazionale» bisognasse agire: ma «prima di agire bisognava capire». Ecco, anche la Fondazione Premio Sila è profondamente convinta che la nostra opposizione allo stato delle cose debba nutrirsi di esempi «di carattere e di forza morale» (come i Rosselli, appunto): è esattamente per questo che oggi – in questo drammatico momento storico, culturale, politico – abbiamo deciso di attribuire questo premio alla figura e all’opera di Alessandro Leogrande. Perché ci manca la sua voce. E perché, al tempo stesso, la sua voce continua a parlarci – dai suoi libri, dai suoi articoli – con una forza straordinaria.
Alessandro, ha scritto il suo maestro e compagno di strada Goffredo Fofi, «è stato una delle presenze più acute e morali non solo della sua generazione, in anni della nostra storia che dire pessimi, o meglio squallidi, è dire poco. […] I libri di Alessandro sono qualcosa di più dell’inchiesta, sono buona letteratura, che sarebbe probabilmente diventata col tempo ottima. […] Gaetano Salvemini accusava gli intellettuali meridionali di essere ‘sconcreti’, lui non lo era, e non lo è stato Alessandro, […] il migliore tra gli italiani della sua generazione».
Ebbene, per me e per molti, La Frontiera (il libro di Alessandro uscito nemmeno quattro anni fa, nel novembre del 2015) ha già il sapore di un classico. Di un libro, cioè, che è necessario leggere per capire il tempo e lo spazio in cui viviamo: e anche per decidere da che parte stare. Già, perché è un libro che, a leggerlo, rende semplicemente impossibile l’indifferenza: quell’ «indifferentismo» che, diceva Piero Calamandrei, è l’esatto contrario di «resistenza». Perché la Frontiera non è un libro sulla migrazione, e non è nemmeno un libro sui migranti: ma è un libro dei migranti, e coi migranti. Cioè tessuto delle loro voci, costruito con loro: facendo costantemente reagire due umanità messe a nudo.
L’ultimo capitolo si intitola Tutta la violenza del mondo. E parla di Caravaggio. Parla del Martirio di San Matteo, il grande quadro che Caravaggio dispone sulla parete destra, per chi guarda, della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma. Un quadro di oltre quattrocento anni fa: che parla di noi.
In primo piano c’è un delitto, un fattaccio di cronaca nera in una chiesa di Roma. Un sicario, nudo, sta per sgozzare un vecchio prete, proprio sull’altare. Una folla assiste all’evento. Sono i benpensanti riuniti per la messa: ben vestiti eleganti, sicuri. Si ritraggono orripilati, ma non fanno nulla: non intervengono. Sono la zona grigia. La «gran massa inerte che lascia fare», nelle parole di Calamandrei e di Rosselli. In quella folla, nota Alessandro, tutti sappiamo che Caravaggio ha rappresentato se stesso.
«Caravaggio non fugge – scrive – guarda la vittima perché non può fare altro che stare dalla sua parte e vedere come va a finire ciò che si sta per compiere. Ha già intuito tutto, ma non interviene. Sa di non poter intervenire, di non poter fermare quella spada. La sua commiserazione è ancora più dolorosa, perché totalmente impotente. La lucida interpretazione dei fatti, e ancor più il genio dell’arte, non arrestano il massacro. Si può solo provare pietà. Dipingendo il proprio sguardo, Caravaggio definisce l’unico modo di poter guardare all’orrore del mondo. Stabilisce geometricamente la giusta distanza a cui collocarsi per fissare la bestia. Dentro la tela, manifestamente accanto alle cose, non fuori col pennello in mano. Eppure sa anche che tale sguardo è inefficace, non cambierà il corso delle cose». Ebbene, concludeva Alessandro: «Ora mi chiedo se lo sguardo di Caravaggio non sia anche il nostro sguardo nei confronti dei naufragi, dei viaggi dei migranti e soprattutto dalla violenza politica e economica che li genera. Nella migliore delle ipotesi, ovviamente. Quando cioè quello sguardo non è inquinato dall’apatia, dall’indifferenza, dallo stesso fastidio per l’oscenità della morte. Quando quello sguardo non è già, fin dal principio, connivente con la lama dell’aguzzino».
Alessandro Leogrande guarda tutta la violenza del mondo attraverso gli occhi di Caravaggio: perché è Caravaggio – coi suoi corpi vessati, torturati, mutilati, decapitati: violati senza speranza di resurrezione né di umana giustizia – a dire la verità sul rapporto tra i corpi e il potere. «L’arte – scriverà Michel Foucault – deve stabilire con la realtà un rapporto che non è più di ornamento, di imitazione, ma di messa a nudo, di smascheramento, di ripulitura, di scavo, di riduzione violenta alla dimensione elementare dell’esistenza». L’arte di Caravaggio, la scrittura di Alessandro Leogrande.