Torno a leggere Gianluca Barbera (Reggio Emilia, classe 1965) con una rinnovata ammirazione. Di questo scrittore ho letto un paio di romanzi, Magellano (Castelvecchi, 2018) e La truffa come una delle belle arti (Aliberti, 2016). L’uno romanzo d’avventura, l’altro storico, fantasmagorico, delirante, capace di farci ridere sulle vili faccende del mondo. Con tutta la portata del pensiero di un intellettuale di razza, puro, appassionato di Cioran e Diderot, in grado di raccontare qualsiasi cosa usando il linguaggio perfetto. Ed è quanto mi avvince – il linguaggio perfetto – in special modo anche nel suo ultimo Marco Polo (sempre per Castelvecchi, uscito appena). Romanzo storico e d’avventura, ma c’è sempre di più, oltre la lingua, la trama, nell’insieme, con Gianluca Barbera la ricerca diventa un trionfo di descrizioni sontuose, lontanissime, diventano un viaggio, un’esperienza sciamanica persino. Il navigatore veneziano è già la preminenza in ogni pagina, il suo carattere definito si svela dentro un’avventura che ne reindirizza un’altra. Leggendario e mitico, avventuroso e compiuto. Ecco, questo Marco Polo di Gianluca Barbera mi conquista ancora una volta, malgrado non sia devota al romanzo di genere, e tanto dimostra che il romanzo di Barbera non lo sia un romanzo di genere. Ed è la straordinarietà che riconosco in Barbera, direttore editoriale di Melville e critico letterario, Barbera elude finanche il confine, il pensiero che scioglie nell’azione (cito alla lettera), non è nemmeno un tradizionale romanzo d’avventura. E’ il romanzo di Barbera, cercato, perfezionato.
Ho preso appunti, man mano che procedevo nella lettura. Intanto la lingua, di cui sopra vi annunciavo. In quarta di copertina leggo di una “lingua immaginifica e limpida”, tanto è, né più né meno. Superiore, calata esattamente nel tempo, medievale da una parte, credibile e assonante al secolo che percorre. Ogni periodo frana in una nuova storia, come in una matrioska. Non è solo Marco Polo a narrare la sua avventura verso l’Oriente, l’aedo reclamato nelle corti d’Europa, le storie da Il Milione che consegna ad ogni tappa del viaggio. Finiamo lungo sentieri infuocati, deserti senza orizzonti, in sella o nel cargo di carovane, al fianco di personaggi e creature leggendarie, luoghi inauditi e infine il paesaggio che restituisce: Trebisonda, i monti Calamita, il drago feroce che afferra la bestia – la bellissima Teofila, figlia di Ippocrate, trasformata in mostro dalla Dea Dimatha, gelosa della sua bellezza, in attesa del coraggioso cavaliere; Ibn Battuta, il grande viaggiatore, il ragazzino dotato di grazia sapienziale, una specie di baco custode di una tale grandiosità. Luoghi, uomini, creature favolose. E’ Marco Polo di Gianluca Barbera.
Soltanto per accennarvi cosa sia questo romanzo, quante narrazioni dentro un’unica magistrale che conduce la trama simile a una carovana nel deserto, e il capo-carovaniere stavolta è lui, l’impeccabile Barbera.
In una recente intervista (su Pangea), Gianluca Barbera ammette che il suo è un tentativo di recuperare molti anni, il tentativo di uno scrittore che cerca la parola definitiva. Recuperare e produrre con un ritmo febbrile.
Con Magellano, il romanzo precedente, apriva forse questa fase, Barbera: ricerca, onesta ambizione, rivalsa sul tempo perduto, tutto insieme per raggiungere e chiudere con la parola definitiva. Magellano, tradotto in Portogallo, è arrivato ovunque, persino in teatro, con Cochi Ponzoni. Di Marco Polo immaginiamo un destino simile.
Soprattutto, val la pena leggerlo.