Per Mario Draghi non vale nemmeno la pena di parlarne, perché “o sono valuta, e quindi sono illegali, oppure sono debito, e dunque lo stock del debito sale”. Ma nei giorni scorsi è bastato che nel dibattito pubblico riemergesse la parola mini bot per provocare sussulti contribuendo a spingere lo spread fino a quasi 300 punti. Eppure nella mozione approvata dalla Camera con voto bipartisan sono stati presentati come un innocuo strumento per velocizzare i pagamenti della pubblica amministrazione alle aziende creditrici. Si tratterebbe di titoli senza scadenza, senza interessi, con tagli tra 1 e 50 euro che verrebbero assegnati alle aziende che vantano crediti nei confronti dello Stato. Questi titoli potrebbero poi essere utilizzati per pagare le tasse.
Qui sorge un primo interrogativo: che bisogno c’è di mettere in moto questo giro di pezzi di carta? Sarebbe, ad esempio, sufficiente e più funzionale permettere alle imprese di portare a compensazione le cifre che attendono dallo Stato. Non a caso il ministero dell’Economia si è premurato di specificare che “non c’è nessuna necessità né sono allo studio misure di finanziamento di alcun tipo, tanto meno emissioni di titoli di Stato di piccolo taglio, per far fronte a presunti ritardi dei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni italiane”. Naturalmente l’emissione di titoli di Stato, per quanto piccoli, comporta un incremento del debito pubblico pari all’ammontare complessivo dei minibot messi in circolazione. In questo modo si finanzia quello che di fatto è un indiretto taglio delle tasse. Fatto con il deficit.
Secondo interrogativo: come mai allora i mercati hanno reagito così male a questa proposta? Due i motivi. Il primo è più “innocuo”. Di solito Stati o enti locali che ricorrono a questi strumenti lo fanno perché le cose vanno male, quando le casse piangono. È stato così in Argentina nel 2001, quando la provincia di Buenos Aires mise in circolazione il “patacon”, strumento simile al minibot, impiegato per pagare fornitori e dipendenti. Ci provò, senza successo, la California nel 2009, periodo in cui anche il ricco Stato americano era alle prese con una crisi di liquidità. Il rischio è che a fronte di risultati modesti e transitori, si lanci un chiaro messaggio a mercati e investitori: siamo con l’acqua alla gola. A quel punto chi presta più i soldi? Chi tiene a bada gli speculatori?
Il secondo motivo è più insidioso. Il sospetto è che il reale obiettivo dei minibot sia la creazione di uno strumento di pagamento alternativo all’euro. Il “bozzolo” di una nuova moneta che servirebbe per preparare il terreno ad un’eventuale uscita dalla valuta unica. Del resto, poco più di un anno fa, si era espresso in questi termini il presidente della Commissione Bilancio della Camera della Lega, Claudio Borghi, che aveva testualmente affermato: “I minibot sono un espediente per un’uscita ordinata dall’euro”. Nel 2015 il ministro dell’Economia greco Yanis Vafoufakis fu incaricato di mettere a punto un piano d’emergenza in caso di uscita dall’euro. Il “piano X” faceva perno su uno strumento del tutto simile ai minibot, con cui pagare debiti verso lo Stato e che avrebbe funzionato come “moneta ponte” nelle fasi immediatamente successive all’abbandono della moneta unica. Come noto, il piano non fu mai attivato. Borghi usa il termine “espediente” poiché naturalmente nessuno Stato aderente all’euro è autorizzato a stampare moneta propria. La sovranità monetaria fa capo solo e soltanto alla Banca centrale europea. Tecnicamente parlando i piccoli titoli di Stato non incapperebbero in questo tassativo divieto.
Secondo alcune ardite teorie monetarie, il fatto che con i minibot sia possibile pagare le tasse sarebbe di per sé sufficiente per attribuire loro lo status di moneta. La speranza dei sostenitori è che inizino anche a circolare tra imprese e privati. In realtà le cose sono un po’ più complesse. Per come sono strutturati oggi i sistemi monetari, il valore che sta alla base di una moneta è il fatto che essa sia accettata da tutti come strumento di pagamento. Questo accade quando vi è una comune e condivisa fiducia su questo punto, rafforzata dal fatto che esiste una banca centrale in grado di gestire e amministrare il sistema. A quel punto, un pezzo di carta diventa moneta.
La risonanza internazionale della decisione della Camera non è stata di poco conto. Ne hanno scritto tra gli altri il Financial Times, il Telegraph, il tedesco Die Welt, solo per citare alcune delle testate più note. Dopo che un anno fa venne alla luce l’esistenza di un “piano B” per portare il paese fuori dall’euro, osservatori e creditori dell’Italia mantengono le antenne dritte, pronte a captare anche il più piccolo spostamento degli equilibri del paese. L’agenzia di rating Moody’s ha avvertito che i minibot sarebbero considerati “un primo passo verso la creazione di una valuta parallela e la preparazione dell’uscita dall’euro” aggiungendo che il semplice fatto che se ne torni a parlare è un fattore negativo in vista della revisione del rating in agenda per il prossimo 6 settembre. Saranno anche “mini” ma possono fare molto male.