Mario Draghi ha ritirato fuori il suo bazooka monetario: farà tutto il necessario per evitare il peggio, quindi taglio ulteriore dei tassi d’interesse ormai intorno allo zero o negativi da anni, rilancio del Quantitative Easing e rassicurazioni al settore finanziario che la Banca centrale europea non lascerà che la recessione torni a casa nostra. La Riserva Federale canta nello stesso coro: negli ultimi giorni ha ribadito ripetutamente che taglierà i tassi se sarà necessario. In entrambi i casi queste dichiarazioni equivalgono a un cambio radicale di rotta monetaria, ma sarà poi vero? La Fed spesso non fa quello che dice, specialmente quando si tratta di abbassare o alzare i tassi d’interesse: è un giochetto per confondere le acque ed evitare che i mercati anticipino le sue decisioni. Ma Draghi in genere è di parola.
Naturalmente è impossibile fare previsioni e i motivi sono due: gli indicatori economici da mesi dipingono un paesaggio recessivo ma i mercati continuano a ignorarli, anche se maggio è stato uno dei mesi peggiori per Piazza Affari e si è concluso con un paio di giornate da record; Donald Trump è imprevedibile e nessuno è in grado di analizzare razionalmente il suo comportamento. Un presidente che si avvia verso l’anno elettorale che potrebbe portarlo alla Casa Bianca per un secondo mandato non si è mai comportato così. Sembra quasi che voglia volutamente sabotare l’economia per non essere rieletto e tornarsene a giocare a golf e godersi il suo impero immobiliare. Peccato che la posta in gioco sia l’economia mondiale e il futuro di miliardi di individui.
La guerra delle tariffe, infatti, inizia a farsi sentire negli Stati Uniti. Certo c’è chi ancora crede nel progetto a lungo termine: liberare l’America dalle catene del commercio internazionale e tornarsene a essere quell’isola felice tra due oceani che è stata per un paio di secoli. Ma non siamo più alla fine del 1700, quando le colonie si conquistavano l’indipendenza commerciale dall’Inghilterra a colpi di moschetto. Oggi le interdipendenze economiche sono profonde. Il settore agricolo americano, ad esempio, è fortemente dipendente dalle esportazioni in Cina. Chiuso quel mercato a chi venderanno? Anche il settore dell’elettronica è profondamente connesso al mercato asiatico e cinese. A quanto si dice la Huawei ha messo sotto torchio 10mila ingegneri per lavorare 24 ore al giorno alla sostituzione delle componenti americane nei suoi telefonini.
Senza considerare le tariffe che, da lunedì, avrebbero dovuto colpire le esportazioni provenienti dal Messico. L’impatto sarebbe stato considerevole, dal momento che nel 2018 gli Stati Uniti hanno importato prodotti per un valore complessivo di 346 miliardi di dollari. Ma pare si sia giunti a un accordo.
Intanto l’economia americana rallenta la sua corsa verso la crescita e ce lo confermano alcuni dati. Le previsioni adesso sono per un Pil dell’1,3% nel secondo trimestre contro il 3,1% del primo. E anche quella europea risente della contrazione del commercio mondiale. Ad aprile esportazione e produzione industriale tedesca si sono contratte, la prima del 3,4% e la seconda del 1,9% rispetto al mese precedente. La Banca centrale adesso prevede che il Pil crescerà di appena lo 0,6% nel 2019, invece dell’1,6% previsto lo scorso dicembre.
Lo scenario economico non è dunque incoraggiante, eppure si continua a credere che le cose vadano bene, specialmente negli Stati Uniti dove tutti parlano di crescita e si congratulano per aver eletto un presidente che sa il fatto suo. E’ quello che pensavano in molti negli anni Trenta anche in Germania, che l’iperinflazione e la crisi profonda da questa causata appartenevano al passato. Ma sappiamo bene come è andata a finire quella storia. Speriamo che non si ripeta! Tornando a Draghi e alla Fed, se i bazooka monetari non ci hanno portato fuori dalla crisi anni fa, non si capisce bene come lo possano fare questa volta.